giovedì 27 luglio 2017

condizionamento/decondizionamento e respirazione





Allenamento dei princìpi fondamentali del movimento umano: spingere, tirare, sollevare e schiacciare.
Ad ogni gesto intenzionale corrisponde una precisa condizione psicologica sulla quale è possibile lavorare attraverso la respirazione e la visualizzazione.

Spazi marini


lunedì 7 marzo 2016

Dare forma all'intenzione

Pratiche Bioenergetiche
(dare forma all’intenzione)
Suzao Yixiang

Definizione: le pratiche bioenergetiche sono una sintesi  delle diverse discipline psicocorporee orientali come il Qigong, il Tai Chi Chuan, l’ Yi Quan, ecc.
Lo scopo principale non è quello di creare una nuova disciplina del benessere ma arrivare al benessere senza disciplina, ovvero senza dover necessariamente imparare meccanicamente gesti complicati, lunghe sequenze di movimenti e visioni della vita che niente hanno a che fare con la soggettività del praticante.
Le pratiche bioenergetiche sono un vero e proprio percorso di autoformazione, ovvero un cammino tras/formativo che mette al centro il soggetto e la propria intenzionalità a scoprirsi e (eventualmente) a modificare il proprio modo di sentire, di percepire la realtà, di entrare in contatto con il  corpo, il respiro, aumentando il potenziale energetico e creativo. Si arriva a sperimentare l’unità psicofisica e a riscoprirsi nella propria unicità attraverso il movimento che, guidato dall’intenzione, diviene gesto, ovvero espressione creativa del sé e del proprio modo di essere-nel-mondo.
Il gesto intenzionale che si fa espressione autentica del sé, diviene la manifestazione  più evidente del lavoro bioenergetico, inteso come accumulo/flusso/scarica del potenziale energetico accumulato attraverso il respiro, la visualizzazione e la concentrazione/meditazione.
Potremmo definire quindi questa pratica come una disciplina bioeducativa della sintesi mente/corpo, che nasce dall’incontro/dialogo tra le arti marziali interne e le discipline bioenergetiche orientali; ne deriva un sistema rigenerativo dell’uomo inteso come processo di autoformazione/trasformazione che consente di riappropriarsi delle strutture esistenziali più profonde in modo da riscoprirsi progressivamente nella propria unicità.
Partiamo dal presupposto che ogni individuo abbia una storia corporea personale ed una grammatica gestuale che è unica ed irripetibile, in quanto unico ed irripetibile è il proprio modo di sentire e di esperire.
Le pratiche bioenergetiche  forniscono gli strumenti per imparare a leggere il racconto personale di ciascuno attraverso il gesto, in modo da amplificare il potenziale comunicativo ed espressivo.
L’obiettivo è quello di sviluppare le potenzialità corporee-sensoriali, educando il movimento a divenire gesto  intenzionale, infatti, alla base del gesto stesso vi è un’energia che lo anima, la quale, se opportunamente nutrita e sollecitata, contribuisce alla sintesi del mondo interno con quello esterno, fornendo il cemento per la costruzione della personale comunicazione corporea/espressiva.
La disciplina proposta aiuta a comprendere i personali meccanismi comunicativi/espressivi attraverso  il rilassamento progressivo, il gesto intenzionale, l’ esercizio della respirazione  e la globalità gestuale.
Da questa globalità gestuale è possibile rinvenire l’originale diversità soggettiva attraverso la scoperta delle più intime capacità comunicative ed espressive.
Dalla consapevolezza del proprio tempo/spazio interiore si arriva progressivamente a percepire la propria energia creativa, frutto dell’incontro/intersezione fra il piano mentale, emotivo e corporeo/espressivo.
La sintesi mente/corpo è intesa come processo auto educativo il cui obiettivo è quello di ricavare la trasformazione personale da un puntuale lavoro interiore e fisico allo stesso tempo. Insomma, ognuno deve trovare la propria forma definendo e progettando il tempo/spazio che vuole arrivare ad abitare.
Gli strumenti per realizzare questo progetto, sono ricavabili dalla didattica proposta, infatti, dopo un periodo di condizionamento psicofisico (estremamente leggero, basate essenzialmente sull’osservazione e la riproduzione di precise posture), il praticante avrà modo di decondizionarsi (decostruzione) in modo originale e creativo, così da arrivare a costruire ed abitare la propria forma espressiva.
La personale rielaborazione del programma didattico proposto, dà vita al gesto intenzionale e creativo, capace di trasformare se stessi e il proprio sentire, arrivando ad abitare l’autentica soggettività espressiva.
Donare senso al gesto intenzionale significa caricare emozionalmente l’atto che dà forma e contenuto alla tras/formazione del proprio sé.
Attribuendo forma e contenuto al gesto intenzionale si dona valore espressivo all’atto manifesto e infatti, creare valore è una delle mete fondamentali di questo percorso.
Attraverso la libera espressione di sé, il praticante crea valore, ovvero, dona forza e carica vitale al proprio fare; ora, poiché ogni gesto intenzionale è frutto di una profonda risonanza interiore, ne deriva che, attribuire valore al gesto significa auto/valorizzarsi e quindi dare un’impronta di forza (dettata dalla carica emozionale) a tutto l’essere in sé.
Nel dare valore al gesto l’uomo si riscopre nella propria autovalorizazzione in quanto essere in divenire (trasformazione continua del sé) e in quanto donatore di senso del proprio mondo e di quello altrui.
Solo dalla valorizzazione di sé attraverso il gesto intenzionale, frutto della ri-scoperta unione mente/corpo/atto, l’uomo dona senso e significato alla costruzione del proprio mondo, ossia emancipa se stesso ristrutturando in modo più funzionale la visione della realtà vissuta e progettata.
Il fondamento della pratica, l’ideale che anima tutta la didattica, è il concetto di emancipazione dell’uomo, ovvero il personale cammino auto educativo in grado di tras/formare in senso evolutivo la soggettiva umanità.

Cosa non sono le pratiche bioenergetiche:
1)      una forma di ginnastica
2)      una nuova disciplina orientale
3)      un modo nuovo e diverso di meditare.

I sì e i no delle pratiche bioenergetiche
1) no  all’apprendimento di movenze meccaniche rigidamente prestabilite;
2) sì all’espressione del gesto, frutto del proprio modo di sentire ( non c’è la ricerca ossessiva della movimento e della postura perfetta). Il gesto sbagliato è quello che si fa semplice movimento, ovvero azione senza intenzione, conseguenza della semplice imitazione.  
3) no al fare senza sentire, alla fisicità senza consapevolezza, al mentalizzare senza esprimerSi con e attraverso il corpo, al fare perché ci è chiesto, al capire senza comprendere (senza cioè partecipazione emotiva).
4) sì al parlare attraverso il corpo, al manifestare il proprio esserCi qui ed ora, all’autoaffermazione attraverso la sinergia corpo/mente, alla ricerca della propria autenticità.

Parole chiave delle pratiche bioenergetiche[1] 
. emancipazione dalla propria condizione iniziale con il fine di autenticare se stessi, donando senso alla ricerca di sé e del proprio essere nel mondo in modo da ri-comprendersi all’interno di una cornice auto-formativa più ampia.
. educarSi al fine di non perdere la propria forma originaria, ovvero evitare di de-formarsi, rischiando di perdere l’ autenticità più profonda.
. Scienza dell’esplorazione   profonda condotta dal soggetto nella propria soggettività, autointerrogando il pensiero e il poprio sentirSi nel corpo.
. Pratica formativa nel senso che è un metodo operativo che ha come oggetto la cura del soggetto che vive una possibile situazione di malessere formativo, inteso come sofferenza interiore e disagio esistenziale.
. l’obiettivo delle pratiche bioenergetiche è quello di evitare le deformazioni (esogene, ovverosia esterne al soggetto ed endogene, cioè interne, che si manifestano durante il processo di crescita dell’uomo) e quindi la perdita  dell’armonia propria dell’uomo, ivi compresa il senso di indeterminatezza (le pratiche bioenergetiche mirano appunto alla ricerca dell’unità e dell’integrità psicofisica attraverso il gesto spontaneo e la respirazione). In questa prospettiva, la deformazione è concepita come mal-essere che impedisce al soggetto una armonica ed equilibrata formazione di se stesso.  Le pratiche bioenergetiche si pongono come possibile rimedio al senso di estraneità che il soggetto prova verso il proprio essere.
. Essenza: coincide con l’avventura formativa intesa come viaggio verso la scoperta del sé e della  sua espressione più autentica.
. Autenticità: ciò che con la pratica andiamo a ricercare ed esprimere.
Fondamento: è l’autentico che si rinviene durante il percorso formativo soggettivo.
. Stenìa: energia vitale, intesa come forza e vigore che andiamo con la pratica a far germogliare affinché possa fluire nel corpo e servire da carburante per consentire che il viaggio trasformativo abbia inizio.
. Crisi dell’essere: progressivo acutizzarsi della condizione di deformazione soggettiva, fino al punto di  smarrire il baricentro esistenziale del proprio essere formativo, responsabile dello stato di vuoto interiore e di assenza di vitalità. La pratica bioenergetica interviene sui processi e nei percorsi di deformazione dell’uomo, attivando un delicato riequilibrio delle forze interne sia attraverso la donazione di senso del gesto, sia attraverso il proprio ri-affermarsi nel mondo. L’obiettivo è quello di definirsi e differenziarsi, in modo da  evitare la spersonalizzazione, ovvero la perdita delle personali caratteristiche distintive e poter dar vita, finalmente, alla personale significazione esistenziale.
Comprensione: rappresenta si l’ armonia tra  sentire e capire, ovvero l’alchimia interiore capace di far maturare il processo formativo, sia il luogo in cui  è possibile andare ad indagare per rinvenire le tracce del proprio deformarsi.
Decostruire: processo che viene utilizzato con duplice valenza.
1)      decostruzione delle discipline psicocorporee: per arrivare alla messa a punto delle pratiche bioenergetiche è stato messo in pratica il principio dello scultore Michelangelo Buonarroti, il quale affermava:  “la scultura si fa” per via di levare “ e non ”per via di porre”, come accade, invece, per la pittura, per la modellazione dell’argilla e per le statue bronzee. Lo scultore elimina la materia che nasconde la forma, essendo quest’ultima già idealmente presente nel marmo: egli ha il compito di rivelarla, attraverso un lavoro manuale che è, al tempo stesso, un processo dell’intelletto e dello spirito. L’idea è preesistente all’atto creativo; all’artista spetta il compito di renderla visibile. Per questo motivo, la sua opera trova alta espressione nel “non finito”: Michelangelo scolpisce il blocco girandogli intorno, insistendo su alcune parti fino ad esternarne la forma finita e lasciandone altre scabre, se non del tutto inglobate nel marmo. Non è possibile conoscere del tutto la forma che si sforza di liberarsi dal marmo; il “non finito”, infatti, contiene in sé infinite possibilità di sviluppo della forma[2].
In pratica si è trattato di distillare le discipline psicocorporee passate al vaglio, al fine di eliminare i tratti non essenziali, gli appesantimenti, le decorazioni formali come: le movenze articolate, le applicazioni marziali, gli stilismi, l’eccessiva fisicità, i movimenti complicati e le spiegazioni (ognuno deve andare alla ricerca del proprio significato personale, non assumerne uno già confezionato, altrimenti non si fa altro che alimentare l’inautentico, ovvero quella forma della deformazione della quale vogliamo assolutamente sbarazzarci) sia tecniche che filosofiche.
Dalla distillazione rimane l’essenziale, ovvero i princìpi guida comuni a tutte le discipline psicocorporee orientali e che, una volta acquisiti, possono essere utilizzati per trasformare l’azione in gesto, ovvero per caratterizzare in modo pieno e significante l’agire che si fa, finalmente, espressione personale.

2)      Decostruzione come processo tras/formativo: con le discipline bioenergetiche il soggetto coglie i plessi nascosti della propria singolarità, mettendoli a nudo, scomponendoli e ricomponendoli secondo il nuovo progetto formativo in atto. Ciò che emerge sono i bisogni inespressi, impliciti, enigmatici, inconsci, che vanno ad interagire con il percorso formativo e che servono da motore propulsivo per riscoprire, non solo la formazione originaria del soggetto (struttura identitaria) ma anche per attivare ulteriori forme della formazione (trasformazione della formazione originaria).

Colmare il vuoto: significa che il praticante  prende coscienza, non solo dei conflitti che portano a deformare la sua autenticità, ma anche della possibilità di garantire una presenza di sé a se stesso in quanto centro prioritario dell’intero processo formativo.

Donare forma all’informe:  attraverso l’esercizio, il soggetto  arriva gradualmente a percepire i nodi della propria de/formazione e può così riconquistare il significato del suo essere individuo,  riguadagnando la coscienza del proprio essere formativo.

Resilienza formativa: con le tecniche gestuali si vuole arrivare anche ad irrobustire e potenziare la capacità di resistere agli urti della vita, alle paure, alle pressioni sociali e a tutto ciò che può, in qualche modo, deformare la propria unicità, portando effetti disarmanti in termini di disarmonia, disequilibrio e distonia.   

Deformazione: uno degli obiettivi delle pratiche bioenergetiche è quello di individuare e dissolvere ogni forma di alterazione, causa principale dell’allontanamento dalla forma originaria e autenticante della formazione soggettiva,  impedendo ogni possibile trasformazione. Le pratiche bioenergetiche aiutano il praticante a riappropriarsi della sua formazione originaria, intraprendendo un cammino formativo che proceda in direzione opposta a quella dettata dalla de-formazine e dalla dis-educazione. Insomma, per deformazione si intende tutto ciò che impedisce al soggetto di formarsi nell’armonia di se stesso, portando allo smarrimento dell’originarietà e conducendo alla nientificazione trasformativa, ovvero al soffocamento dell’impulso formativo, causa principale del mal-essere esistenziale.

Obiettivi fondamentali:
tradurre la deformazione in formazione, la distonia in sintonia, la disarmonia in armonia, il disequilibrio in equilibrio, i malesseri che de-formano (sofferenza, fragilità, senso del limite, vuoto…), in benessere che tras-forma, attraverso un percorso che conduca all’indagine  intima della struttura formativa di se stessi.
Il praticante impara a percepire se stesso  a partire dal suo “sentire” più intimo e ad interrogarSi circa la propria condizione; con il domandarsi si decostruisce e con la pratica, associata al sentire, impara a darsi una nuova forma, ovvero a tras-formarsi in maniera autonoma e consapevole. Annichilimento dell’originarietà vs Recupero della personale archeologia formativa.
 Educazione gestuale[3]: siccome il gesto è la materia prima dello psichismo che consiste nello stato di tensione  che precede l’azione, possiamo dire che lo stato di tensione è  l’emozione stessa che sta per esprimersi nel gesto. EducarSi al gesto significa prendere coscienza di sé, strutturare ed integrare il sé, favorire l’espressione di sé. Dalla sintesi di questi tre aspetti emerge chiaramente come il gesto intenzionale, emozionalmente carico, rappresenti la via regia dell’espressione e della comunicazione  della propria autenticità, divenendo un vero e proprio linguaggio, ovvero, un atto che mira a modificare il rapporto con il mondo esterno, oltre a rappresentare anche il mediatore fra il soggetto, l’oggetto e l’altro da sé.


 Princìpi teorici guida:

1) La consapevolezza che gli ingredienti necessari per far avvenire la trasformazione alchemica  sono già tutti presenti nell’uomo ma scissi e nascosti nelle falde della deformazione soggettiva.
2) Il respiro, inteso come la forma di energizzazione fondamentale necessaria affinché la reazione alchemica possa avvenire.
3) La visualizzazione/meditazione statica e dinamica rappresentano il movente necessario affinchè il corpo possa agire intenzionalmente per dare forma al vissuto psichico in maniera creativa ed originale (autenticità).

 Princìpi pratici guida:

1) radicarsi per essere presenti a se stessi e al mondo
2) sollevare per allontanare le oppressioni del cielo (ciò che sta sopra, che schiaccia, di ciò che opprime, ovvero l’assillo dei pensieri)
3) spingere avanti dietro e lateralmente per allontanare la presenza asfissiante degli altri, che portano alla spersonalizzazione e a rendere più labili i confini del sé. Allontanarli significa ribadire i confini personali e definirsi in modo più marcato.
4) Tirare a sé per inglobare, prendere, assumere nuove prospettive
5) abbassare/schiacciare: portare in basso ciò che sta in alto, ovvero dare al desiderio/pensiero una forma concreta (afferrare/lasciare).
6) Aprire: dare la possibilità di accogliere per rinnovarsi e migliorare
7)Chiudere: momentanea fase di autoripiegamento e raccoglimento per darsi il tempo di digerire ciò che è stato accolto in seno.
8) Torcere/avvitare per accogliere e poi rilasciare (prendere per poi donare).
9) Avanzare/retrocedere - spostarsi lateralmente.

Come è ben evidente, il lavoro è stato sia di smembramento e di filtraggio, sia di sintesi, ovvero ad ogni principio pratico ricavato per “via del togliere” (analisi), è stato associato successivamente un preciso correlato psicologico (sintesi).
L’azione, animata dall’intenzione psichica, prende forma con l’espressione corporea e diventa così manifestazione del soggetto e del suo essere Unico nel mondo.

A cosa serve

Essendo fondamentalmente una disciplina globale del rilassamento e del potenziamento interiore, possiamo definire questa attività come una pratica meditativa sia statica che dinamica, che si svolge attraverso una educazione gestuale atta a sintonizzare la mente con il corpo e ad alleviare la fatica fisica e mentale, riducendo le tensioni ed il carico di stress.
Diviso in 5 momenti pratici distinti, è possibile favorire gradualmente l’equilibrio interiore, predisponendo alla gioia e all’entusiasmo mediante l’azione positiva del respiro e dell’immaginazione guidata, a livello psichico, energetico ed emozionale.
Lo sviluppo progressivo dell’energia vitale ed il recupero del sorriso interiore, consentono di attuare una vera e propria autodisciplina del corpo e della mente allo scopo di attivare la trasformazione psicofisica desiderata. Definita come disciplina dell’evoluzione umana e della sintesi mente/corpo, ovviamente l’obiettivo finale è quello di favorire l’aumento delle potenzialità bioenergetiche soggettive e della loro espressione autentica attraverso il gesto, in modo da consentire una maggiore autoconsapevolezza ed un rilassamento progressivo del corpo e della mente.
In quanto disciplina della forma e dell’intenzione, quindi, il lavoro proposto si svilupperà all’interno di una cornice formativa dove l’autocoscienza intenzionale, l’indagine interiore e l’allenamento meditativo inteso come cura di sé, rappresentano i cardini principali di tutto il programma.

Cenni generali  sulla didattica

     Questa disciplina si suddivide in 5  momenti essenziali distinti ma interdipendenti:
1)      presa di coscienza di sé
2)      affermare se stessi nel mondo
3)      nutrirsi di energia
4)      apprendere la grammatica dei gesti (condizionamento)
5)      esprimersi con libertà attraverso la poesia dell’energia (decondizionamento) per riscoprire l’autentico.
Le prime 2 fasi si basano essenzialmente sulla presa di coscienza del proprio respiro, sull’autoascolto, sulla percezione del corpo nella sua staticità e nelle sue  prime vibrazioni gestuali.
La terza fase è essenzialmente dinamica e rimanda ad una sorta di meditazione immaginativa unita al gesto intenzionale.
La quarta fase è il cuore di tutto il sistema. Si inizia a condizionarsi per poi decondizionarsi (nella quinta fase) e riscoprire la libertà del gesto espressivo.
Per condizionamento si intende la necessità di apprendere la grammatica del movimento, ovvero le regole dei movimenti che seguono i princìpi fondamentali precedentemente descritti: sollevare/schiacciare, spingere/tirare, torcere, aprire/chiudere, alzare/abbassare. Attribuendo ad ogni azione formale un contenuto psicologico e ideativo preciso, si aiuta a trasformare  il movimento in gesto intenzionale.
La quinta fase è di liberazione. Una volta comprese le regole del proprio linguaggio corporeo  il praticante inizia ad esprimere se stesso attraverso la composizione della poesia del movimento che è sempre  unica ed irripetibile  perché frutto del personalissimo sentire soggettivo. Tutto questo è possibile grazie alla costruzione del movimento, utilizzando  arbitrariamente i  princìpi sopraelencati.

N.B. Niente vieta di costruire lunghe sequenza di movimenti, come riportati nella sezione finale del seguente lavoro. La classe può infatti decidere di sperimentare l’armoniosa onda degli esercizi di lunga vita, con lo scopo di percepire l’energia di gruppo seguendo l’ordine e la meccanica precisa dei movimenti riportati dai disegni in fondo alla guida.
Oppure, molto più semplicemente, è possibile prendere spunto da tali esercizi sezionando ed adattando le sequenze al proprio modo di esprimersi, anche attraverso la creazione di esecuzioni più brevi (purché siano rispettate le regole della grammatica di base).
Una volta acquisita la grammatica del movimento, comunque, ognuno può decidere di comporre il “discorso espressivo” corporeo a proprio piacimento; ma sia chiaro: l’obiettivo finale non è mai quello di apprendere mnemonicamente sequenze di movimenti codificate da altri ma, al contrario, sperimentare la personale libertà interpretativa del gesto, al di là di ogni imposizione o sterile ripetizione di atti gestuali privi di una sincera risonanza interiore.



Le domande da porre in ogni sezione di lavoro

Il praticante viene stimolato dalle domande del conduttore, al fine di condurlo gradualmente all’autointerrogazione, ovvero all’indagine di sé, in modo da consentire quello scavo archeologico necessario per portare alla luce la propria autenticità più profonda.
Domandando si stimola la riflessione e si aiuta a sensibilizzare all’autoascolto.
I piani di indagine sono essenzialmente quattro: sensazioni corporee, visualizzazioni, emozioni provate, pensieri.
E’ importante domandare non solo cosa si sia provato ma anche cosa si pensi di ciò che è stato esperito, chiedendo se quello che è emerso sia ritenuto importante ed autentico e se sia necessario chiarirne la natura per poi coltivarlo, trasformarlo, ecc.
Tutto ciò che il praticante esperisce deve poter essere, se lo ritiene frutto della propria sincera visione interiore, alimentato e nutrito in modo da consentire una progressiva crescita interiore durante tutto il percorso formativo.
Esempi:
Cosa hai sentito durante… (formicolii, calore, freddo…); a cosa credi sia dovuto? Vorresti provare ad amplificare questa sensazione? Era piacevole o fastidiosa?
Cosa hai provato mentre…(paura, rabbia…); a cosa credi sia dovuto? Vorresti provare ad amplificare questa sensazione? Era piacevole o fastidiosa?
Cosa hai percepito mentre praticavi? (immagini o suoni); a cosa credi sia dovuto? Vorresti provare ad amplificare questa percezione? Era piacevole o fastidiosa?
Quali pensieri sono emersi durante l’attività? a cosa credi siano dovuti? Vorresti provare ad indagare la natura di questi pensieri? Erano piacevoli o fastidiosi?

Restituzione

. Tenere un registro  in cui si riportano le sensazioni soggettive  in modo da effettuare una discussione di gruppo.
. Provare a rappresentare con i colori a dita (o con i pennelli) ciò che è stato avvertito/ visualizzato
. Il gruppo può commentare il disegno fatto dal singolo, esprimendo sensazioni personali.
. L’autore può successivamente confermare o disconfermare, approfondendo l’analisi dei propri vissuti.



[1] Per la stesura di questo paragrafo, è stato fatto ampio riferimento al testo di Sola G., Introduzione alla Pedagogia Clinica, Il Melangolo, 2008, Recco (Ge), pp. 15 e ss.
[2] Cfr. www.iisforlimpopoli.it/artusij/area.../398-11-michelangelo-buonarroti1
[3] Orlic : L., L’educazione Gestuale, Armando, Roma, 1970,  pp.10 e ss.

sabato 8 agosto 2015

La pedagogia Olistica: una scienza  antica dal volto moderno

1. La Pedagogia generale e sociale
Nei precedenti saggi, abbiamo avuto modo di approfondire gli aspetti più importanti della pedagogia e di mettere in risalto il suo volto più attuale; abbiamo definito la pedagogia come scienza dei processi formativi e visto come il suo come campo di lavoro e di interessi sia l’educazione e quindi il cambiamento dell'individuo. Più precisamente la pedagogia è stata inquadrata come teoria dei processi educativi ed è stata scandagliata nei suoi diversi piani epistemologici e professionali: etico filosofico, psicologico, sociologico, didattico e relazionale[1].
Abbiamo altresì accennato  come questa contaminazione contenutistica abbia reso la pedagogica dipendente dalle altre discipline e l’abbia relegata in uno stato di “ancillarità” rispetto alle altre, fino ad arrivare (erano gli anni ‘80/ ’90) a parlare di una crisi della pedagogia, proprio a causa  della mancanza di un proprio statuto epistemico. Questo ha generato una disordinata ricerca di scientificità di derivazione extradisciplinare, nonostante negli ultimi anni la pedagogia stia recuperando un assetto epistemologico basato essenzialmente sul modo di operare, detto clinico, che fu sperimentato nel passato da pedagogisti come Itard[2], Seguin[3], Montessori[4], Decroly[5], Claparede[6].
Se la pedagogia è la scienza che si occupa di studiare i processi formativi, essa ha a che vedere da una parte con lo sviluppo, la maturazione, la crescita e il cambiamento del soggetto nel tempo, in un determinato contesto sociale, dall'altro all'unicità del soggetto e all'irripetibilità delle sue scelte, interpretazioni e percorsi di vita. La pedagogia moderna intesa come scienza centrata sul soggetto in formazione, sembra essere un ottimo connubio tra queste visioni solo apparentemente antitetiche. La pedagogia è e si fa per la persona intesa come un’ unicità che è sì destinataria di un suo privato percorso formativo ma allo stesso tempo aperta alle realtà altre, incrociando persone, percorsi e tracciati diversi che la vedono inserita sempre e comunque in un determinato contesto di vita. 
Il Pedagogista si definisce tale in quanto il suo è un approccio di tipo individuale, basato sulla persona  e la valenza del termine giustifica anche i paradigmi fondanti della pedagogia, che abbiamo visto essere fondamentali nel corso di pedagogia sociale: l’empiricità, l’individualità e l’ecologia.
La pedagogia ha come oggetto di studio il soggetto individuandone i bisogni formativi al fine di inquadrare un percorso educativo atto a favorire cambiamenti, intesi in termini di crescita, maturazione ed aiuto allo sviluppo.
 Ormai la ricerca da più parti è impegnata su questo fronte, già Massa[7] parlava di “clinica della formazione” intendendo con questo termine la necessità di inquadrare il discorso formativo centrandolo sul singolo, considerato nella propria unicità e inteso come portatore di bisogni particolari, dai quali occorre partire per elaborare un progetto che abbia come obiettivo il cambiamento[8].
Come insegnante di scuola primaria è stato importante riflettere sulla pedagogia sociale, inquadrando le problematiche relative al processo educativo in termini sia di relazione che di apprendimento.
  Per favorire l’apprendimento abbiamo avuto bisogno però di metterci a studiare i processi (e in questo ci ha aiutato la psicologia dello sviluppo e la psicologia legata allo studio dei disturbi specifici di apprendimento), i progetti e gli interventi che ci consentono di arrivare a dei risultati, intesi in termini di cambiamento, che scaturiscono proprio dall’obiettivo di produrre un apprendimento consapevole, cioè voluto e cercato, ossia razionale, come può essere un corso intrapreso di propria spontanea volontà. La formazione, oggetto di studio della pedagogia, si manifesta come processo, ossia come un coinvolgimento allievo/docente, che fa scattare la molla dell’esigenza di apprendere, ovvero di cambiare, o di qualcosa che porti comunque ad una radicale trasformazione. Da questa premessa si procede all'identificazione del bisogno, ossia all’individuazione del problema che si è manifestato e si razionalizza, nel migliore dei casi, per vedere dove è necessario il miglioramento o il cambiamento da promuovere. Si arriva così alla definizione del problema che è la vera e propria diagnosi necessaria per risolvere la situazione e dalla quale scaturirà una ipotesi di soluzione, ossia  delle idee che possono aiutarci e guidare verso la soluzione più ottimale del problema che, in questa sede, si concretizza come domanda di formazione. Insomma, partendo dalle nozioni maturate anche in ambito della psicologia generale e dello sviluppo del corso di specializzazione, è possibile per il docente accogliere   la domanda di formazione degli allievi e, da questa presa di coscienza, pianificare e rispondere adeguatamente alle specifiche richieste dei soggetti, selezionando strumenti adeguati e focalizzando obiettivi mirati. Se perciò la Formazione, in generale, indica qualunque pratica consapevole e intenzionale per l’apprendimento, la pedagogia sociale intende cogliere il bisogno educativo di quella specifica realtà sociale, come la scuola o una determinata comunità. La Formazione attinge direttamente dal mondo della vita (Fenomenologia di Husserl), con la sua materialità Educativa, attraverso le dinamiche esterne e interne, similmente ad una reazione chimica, le quali, rendono possibile il processo formativo. La pedagogia studiando i processi formativi, va alla ricerca dei nessi, dei punti contatto,   della  mediazione educativa possibile tra il mondo della vita e quello della Formazione, agendo in modo intenzionale e facendo tesoro dei metodi elaborati dalle discipline connesse alla Pedagogia: la Medicina, la Psicologia, la Psicoanalisi, la sociologia, ecc. Si approda quindi su un terreno diverso da quello abituale della pedagogia classica. Non si parte più da una teoria generale in grado di comprendere tutte le situazioni problematiche pratiche ma al contrario, le moderne scienze dell'educazione propongono sguardo empirico, fondato cioè sull’esperienza. La pedagogia non si identifica mai comunque con le discipline ad essa affini ma si differenzia da esse, facendo delle ricerche sociologiche e psicologiche la base da cui partire per approfondire le tematiche di natura educativa e cercare le soluzioni specifiche al caso.
Il pedagogista, così come l'insegnante e l'educatore, interverrà allora in modo diverso da chi ha un approccio medico/sanitario, non agirà come si fa con il malato per conoscere la patologia, ma anzi, andrà oltre il disturbo o la difficoltà stessa per rilevare i punti di forza e aggirare l'ostacolo. Il docente e chiunque lavori in ambito educativo, si trova in una situazione diversa da quella di altri professionisti (psicologo, medico, ecc); non ha da classificare una patologia e non ha la pretesa di debellare un disturbo; non è sufficiente cercare di inquadrare la natura del problema di chi si ha davanti perché bisogna entrare in situazioni più complesse che hanno a che vedere con la relazione fra docente e allievo e fra allievo e compagni. Occorre insomma capire la realtà in cui il soggetto si trova immerso (famiglia) e far luce  sui processi e le dinamiche  senza classificarle o etichettarle. Significa, in poche parole, mettersi nei panni dell’altro e considerare normali e naturali anche il malessere, il disagio e la malattia, nel senso che i momenti di cambiamento e di crisi fanno parte del normale andamento evolutivo dell'uomo. Il giusto atteggiamento pedagogico è sempre in evoluzione perchè strettamente connesso all'apprendimento e alla relazione con gli allievi; la conoscenza  che il docente deve maturare è quella connessa non alla sterile ripetizione di modelli appresi ma alla volontà sincera di ricerca, oltrepassando quindi un sapere che viene calato dall’alto come il medico che si china per diagnosticare un male, arrivando invece  ad un'autentica complicità  tra Formatore e Formando, fondata sullo scoprire e imparare insieme.
L'insegnamento, fondato sui moderni principi pedagogici è un percorso legato al sottile filo della relazione che non può non essere di buona qualità; senza una forte relazione con gli allievi, fondata sul rispetto, la fiducia e l'empatia, non è possibile arrivare ad esplorare, ad approfondire la vita vissuta e ad attivare i meccanismi necessari per un apprendimento di qualità, ben oltre quindi la memorizzazione di sterili nozioni assimilate durante le ore di lezione. Durante il corso di specializzazione abbiamo avuto modo di approfondire i temi della psicologia e di esplorare i modelli derivanti dalla  psicoanalisi; la pedagogia deve molto ai contributi di queste discipline come abbiamo ribadito più volte, tuttavia, è doveroso ricordare che il docente o l'educatore è chiamato ad insegnare, ad attivare i processi di apprendimento facendo attenzione però a non confondere i ruoli e chiarendo che non deve esistere la pretesa di fare gli psicologi o i terapeuti, perché, prima di tutto non c’è la preparazione adatta e poi perché il sapere preso in prestito dalla psicanalisi non viene utilizzato per interpretare il mondo interno dei soggetti, ma viene utilizzato come schema di lavoro e di interpretazione di quegli elementi impliciti non espressi direttamente dal soggetto in formazione. Il concetto di formazione qui espresso, comunque, non deve basarsi unicamente sull’adozione dell’impianto di analisi e decodificazione derivato dalla pratica psicoanalitica, anzi, occorre rielaborare tutto quanto per meglio adeguarlo al terreno incerto della realtà educativa, come quella scolastica, creando un setting specifico capace di supportare le variabili di ogni situazione con la quale occorre entrare in contatto per conoscerne i particolari e i processi dinamici che esigono una risposta concreta.
Lo spazio, o setting educativo non è uno soltanto uno spazio simbolico ma assume una vera e propria dimensione  fisica; esso può coincidere con l’aula della classe o con il laboratorio per gli apprendimenti ed è il terreno sul quale nasce e si coltiva la relazione educativa insegnante/allievo, fondamento essenziale per ogni cambiamento. Dal gioco delle relazioni e dai rapporti che si vengono a costituire tra gli allievi e tra allievi e insegnanti, si viene a definire un clima che può favorire o meno gli apprendimenti, che è sempre in evoluzione (o involuzione), che richiede comunque continui ripensamenti e adattamenti per meglio rispondere alle diversificate esigenze di ognuno. Le  regole e i ruoli possono essere discussi insieme all’interno dell’aula, possono cioè essere costantemente ridefiniti e messi sotto i riflettori dell’analisi, in modo da evitare ogni forma di inutile autoritarismo e di decisione unilaterale da parte del docente.
L’atteggiamento dell’insegnante deve perciò essere attento non soltanto ai singoli elementi del processo educativo ma deve essere sensibile anche  allo spazio vissuto quotidianamente dai protagonisti dell’attività formativa, come appunto le aule, gli strumenti, gli oggetti utilizzati; non sono in gioco soltanto gli elementi rappresentazionali e le dinamiche relazionali ma vi è dietro, come una figura sfondo tutto un contesto materiale che non può essere lasciato al caso. Proprio per questo, nei percorsi di ricerca delle scienze dell’educazione sono presenti sia la dimensione esperienziale che quella sperimentale, cercando di donare importanza a tutti quegli elementi che entrano in gioco nella relazione educativa ma che talvolta rimangono in ombra, non vengono espressi, rimangono cioè impliciti; ecco allora la necessità di passarli al vaglio per meglio evidenziarli a capirne non solo la natura ma anche la posizione che assumono nell’essere in rapporto con gli altri elementi della dialettica formativa[9].
L’attività di ricerca dovrebbe, secondo me, essere svolta proprio all’interno della classe, dove l’insegnante, impegnato sul campo con gli allievi, attiva un processo circolare di teoria-prassi, ovvero un continuo confronto della ricerca con l’esperienza. Questo processo evolutivo ed interpretativo di tipo squisitamente ermeneutico, mette in risalto
l' aspetto fondamentale legato alla  dimensione linguistica, infatti, non si possono conoscere i bisogni degli allievi se non attraverso la comunicazione linguistica.
La pedagogia moderna lavora proprio su ciò che viene espresso, ovvero sul modo in cui vengono esposti i problemi, sul modo di esprimersi e sul linguaggio usato dai soggetti che devono produrre dei testi scritti, basandosi molto sulle esperienze personali. Partendo da qui, si fa un’interpretazione per vedere come gli alunni percepiscono se stessi, il mondo che li circonda, la realtà in cui sono inseriti, la famiglia di appartenenza, ecc., in modo da valorizzare quello che emerge, così da aiutare i ragazzi o i bambini ad emanciparsi progressivamente nel modo di pensare e sentire.[10]
L’attività educativa svolta in aula, così come ogni percorso formativo assume un ruolo importante all’interno della riflessione pedagogica; abbiamo più volte affermato che nell’atto di insegnare/istruire però, non tutti gli elementi in gioco vengono espressi direttamente, anzi, molti di essi rimangono latenti, non verbalizzati e tuttavia gravano sulla qualità della relazione comunicativa stessa, rimanendo sempre in ombra.
Questi elementi non espressi, non verbalizzati, tutta la dimensione nascosta della relazione, determina un sentire negli attori, una percezione che però non ha un volto ben definito, non è espressa e che quindi rimane a livello di semplice sensazione. attriti  latenza si riferisce ad aspetti della formazione meno percepiti e più impliciti. In educazione è sempre viva la metafora del rifugio, di un  luogo protetto e appartato, una  nicchia, che assume le sembianze di uno speciale spazio interiore, nel quale si possono decifrare e rielaborare le rappresentazioni mentali e i vissuti affettivi delle esperienze formative vissute, in modo da  capire le dinamiche e i processi che li hanno generati cercando di decifrarli e di donargli un senso che abbiano un significato ed una risonanza interiore tale da consentire di accordarle con le precedenti esperienze personali.
In poche parole, possiamo dire che  gli elementi fondanti della pedagogia moderna, sono da una parte la dimensione esperienziale che riguarda il fare di tutti i giorni, dall'altra la dimensione sperimentale che è la vera e propria ricerca, che è frutto dell’integrazione e della rielaborazione dei materiali forniti dalla sociologia, dalla psicanalisi, ecc.,  , fino ad arrivare alla dimensione linguistica, legata appunto al linguaggio parlato, il tutto, si realizza all'interno di una complessa dinamica, di  un processo, appunto, circolare (ermeneutico) di teoria-prassi[11].
Anche Crispiani ha dedicato molte ricerche in favore della pedagogia, contribuendo con i suoi studi a definire meglio le competenze dell’insegnante/pedagogista, ipotizzando metodi, strumenti, lessico e ambiti di lavoro. Per Crispiani[12] si deve ad Itard, medico e pedagogista dei primi dell’Ottocento, la nascita della pedagogia, intesa come connubio tra scienze dello sviluppo e scienze dell’educazione che oggi è alla base della scientificità della pedagogia.
Per tutti i docenti di ogni ordine e grado credo sia importante approfondire lo studio condotto da Itard sul fanciullo selvaggio; questo perché da un lato ci aiuta ad apprezzare la specificità di ogni singolo alunno, al di là delle tendenze attuali di omologare tutto e tutti, assecondando una logica classista fondata sul rendimento, dall’altra perchè le ricerche emerse aiutano ad  individuare le  diverse fasi dello sviluppo dell’uomo  utili per capire gli allievi nel processo di osservazione. E’ utile imparare quindi la distinzione tra condizioni organiche e funzionali, ponendo l’attenzione non solo  sull’influenza che la situazione di vita esercita sul percorso formativo del soggetto, ma anche sul condizionamento esercitato dalla  disabilità stessa, dai ritardi o deprivazioni ai quali gli alunni possono essere soggetti.
Nell’osservare il fanciullo selvaggio, Itard attuò una serie di atti importantissimi per la pedagogia: l’osservazione diretta ed empirica del fanciullo, l’osservazione sia in condizioni spontanee che provocate, la redazione di una diagnosi funzionale completa sulla funzione motoria, percettiva,emotiva, affettiva, intellettiva, linguistica e sociale, infine,  l’elaborazione di un progetto educativo per mete, obiettivi ed ipotesi di lavoro.
Itard partì dalla considerazione che il fanciullo selvaggio, non potendo essere confrontato con nessun altro individuo, doveva essere studiato nella sua singolare unicità e doveva essere confrontato solo con se stesso . Per questo motivo, lo studio del medico pedagogista sul fanciullo procedette attraverso l’osservazione empirica e fenomenica dei comportamenti e attraverso il coinvolgimento delle funzione biologiche complete della persona.
Rilevando la stretta relazione tra l’educazione e lo sviluppo delle funzioni umane, Itard pone le basi professionali per la pedagogia moderna, dando vita all’impianto della nuova disciplina  basandosi essenzialmente su diversi modelli di riferimento, come la distinzione organico-funzionale riguardante la duplice natura delle patologie e dei comportamenti umani, arrivando ad intuire se i deficit mentali sono congeniti o acquisiti ed applicando progetti educativi specifici e calibrati sul deficit riscontrato.
Insomma, la via pedagogica negli anni si è rivelata un’importante strada che ha consentito agli educatori e agli insegnanti di conoscere gli allievi e le loro potenzialità attraverso l’osservazione diretta all’interno dei diversi contesti. Per accettare tutto questo è necessario però  partire dal presupposto dell'educabilità dell'uomo in qualsiasi momento delle a vita, infatti, partendo dal concetto che il fanciullo selvaggio, sollecitato dagli interventi educativi dello stesso medico, poteva pervenire ad uno sviluppo delle capacità biopsichiche, si può affermare che tutti gli individui sono perfettibili e quindi possono essere
sottoposti ad interventi educativi che ottimizzino le funzioni evolutive. La pedagogia è uno strumento fondamentale che non può essere trascurato dal docente, anche perché è l’unica disciplina che, superando l’idea di classificare, etichettare e categorizzare, 
  mette al centro del lavoro educativo l’osservazione con l'intento iniziale di lasciarsi coinvolgere emotivamente, cognitivamente ed affettivamente nella situazione di studio, ma distaccandosene alla fine per elevarsi al livello di interprete degli stati emotivi dell’individuo in osservazione.
 Un altro importante punto cardinale dell’impianto pedagogico risiede nel primato corporeo e sensoriale, mettendo l’accento sul condizionamento che le condotte e gli stati psicologici delle persone subiscono dalla dimensione biologica e l’azione conoscitiva dell’insegnante deve pertanto cominciare dalla realtà corporea e sensoriale dell’allievo, tenendo conto dell'importanza di considerare il soggetto in senso “ecologico”, ovvero non come una sommatoria di parti a se stanti ma come una totalità integrata. Con il termine “ecologia”si intende una presa in carico totale, infatti, Itard voleva tentare un approccio globale all’intera personalità dell’individuo, cercando di valutare tutti gli aspetti dell’intera unità bio-psichica operante.
Questo approccio è fondamentale in pedagogia; per l’insegnante  è importante considerare lo sviluppo intellettivo dell’allievo in relazione a quello lo  fisico e motorio, dal momento che, come abbiamo detto, la maturazione avviene attraverso un  percorso in cui i diversi fattori si influenzano a vicenda. Questa visione “globale” della pedagogia che tiene conto del soggetto nella sua complessità e unicità, nel rispetto quindi della persona intesa come unica e irripetibile è  stato ben evidenziato da Itard e dalla sua capacità di mettere  in pratica questa concezione , nel senso che, studiando il fanciullo selvaggio, questi ha adottato un atteggiamento empirico.
L’atteggiamento empirico è necessario all’insegnante che necessita sempre un confronto diretto e ravvicinato con gli allievi,  osservando tutti gli aspetti della persona, come la capacità di adattamento e  sperimentando modalità didattiche plurali e individualizzate, in modo da rispondere efficacemente ai bisogni specifici di apprendimento.
Lo stimolo che ha dato e Itard e che tanto ha contribuito alla crescita della pedagogia moderna, riguarda anche  l’utilizzo di materiali da inventare, modificare e perfezionare, che possono fungere da corredo per il lavoro pedagogico e didattico. Molti di questi strumenti sono stati messi a punto dallo stesso Itard ed utilizzati successivamente da Montessori, Decroly e Vigotskij[13]. Itard, come del resto i pedagogisti citati,  hanno contribuito con le loro ricerche sul campo ad alimentare le moderne teorie educative, consentendo alla pedagogia di ergersi a  pedagogia scientifica, veicolando l’idea della duplice funzione della formazione che deve muoversi entro i versanti dello sviluppo umano e dei processi educativi. La pedagogia moderna, infatti, attualmente concepita per certi versi “dissolta” all’interno delle scienze dell’educazione,  valorizza l’idea di transdisciplinarità, mutuando le conoscenze delle altre scienze affini come la neurologia, la psicologia, la sociologia, la filosofia, per curvarle in ambito educativo ed adattarle sul campo, ribadendo in questo modo la fondamentale importanza dell’approccio ecologico alla persona. Il progetto in ambito educativo, viene  concepito come un “guardare avanti” al fine di costruire un precorso evolutivo, dal quale l’insegnante insieme all’allievo devono partire per arrivare a degli obiettivi intermedi e finali. Dopo una prima fase di osservazione in aula, necessaria per rilevare non solo interessi e tendenze, ma anche lo specifico “funzionamento” di ciascuno in quel preciso contesto, occorre elaborare un progetto di lavoro basato sugli obiettivi da raggiungere e sulla verifica degli apprendimenti attesi e dei comportamenti manifestati[14].
Al centro della pedagogia moderna potremmo allora inserire a pieno titolo la fenomenologia del cambiamento capace di influenzare e nutrire l'agire pedagogico del docente stesso, in modo da aiutare l’allievo ad essere protagonista della propria evoluzione. Per quanto riguarda l’allievo, invece, occorre  introdurre all'interno del quadro concettuale della pedagogia professionale la variabile umana, ossia l'elemento destrutturante che, se da una parte costringe l’insegnante a rivedere i propri metodi educativi e didattici, dall’altra dona la possibilità di utilizzare in maniera creativa gli elementi messi in gioco dal soggetto in formazione, in modo da poter effettivamente intervenire in sintonia con i cambiamenti e le necessità espresse.
 L’agire pedagogico che abbiamo messo in evidenza parte dal presupposto che ogni agire sia intenzionale, ovvero educativo, che tenda in ogni momento a favorire il cambiamento dell’allievo attraverso il continuo ripensamento del progetto educativo e didattico, per meglio adattarsi alle nuove situazioni che si presentano. 
Il setting educativo è quindi ricco di variabili messi in gioco dall’insegnante che ha il compito di educare e dal soggetto che, da una parte cambia in quanto in fase di crescita e maturazione, dall’altra è chiamato ad apprendere e ad essere sempre sotto la lente della valutazione formativa. A questo gioco complesso e sottile partecipano anche altri elementi, come ad esempio il tempo lasciato all'educando per esprimersi e lo spazio necessario, affinché il processo educativo possa effettivamente avvenire anche a livello emozionale, cogliendo tutte le sfumature di quello che avviene all’interno dell’aula scolastica. Il tema della libertà è anch’esso centrale nell’idea di pedagogia modernamente intesa, infatti, oltre alle conoscenze, agli stili di vita e ai comportamenti appresi, occorre tenere presente il concetto di reversibilità ovvero la possibilità per l’alunno di sentirsi libero di scegliere se  continuare o meno un determinato cammino, oltre naturalmente alla direzione, ossia gli atti messi in opera dall'educando e dall’insegnante che devono sempre seguire necessariamente uno scopo ben definito. Il dubbio fondamentale della relazione educativa, comunque, rimane sempre, nel senso che è difficile chiarire se il successo o l’insuccesso del percorso formativo intrapreso o se il cambiamento desiderato che si verifica, sia dovuto alla personalità dell’insegnante, alla sua tenacia e quindi alle sue caratteristiche più umane anziché professionali. In ambito pedagogico questo è un tema molto discusso e,  forse, sarebbe il caso di sfatare attraverso ricerche più mirate il mito che per l’insegnante sia sufficiente una buona dose di volontà e di pazienza per raggiungere i risultati attesi. Molti illustri pedagogisti italiani come ad esempio Demetrio[15], affermano che modi di pensare del genere non possono che creare negli insegnanti e negli educatori, atteggiamenti  assistenzialisti, mentre invece, seguendo un'ottica squisitamente pedagogica, quello che interessa è modificare la situazione esistenziale dell’allievo, nonostante le incertezze, le complesse situazioni soggettive, anche se occasionali che costantemente si manifestano all'interno della relazione educativa. Da sempre l’educazione si differenzia dall’assistenzialismo in quanto la prima spinge il soggetto a far emergere le potenzialità che possiede, accettando la sfida della instabilità e dell’incertezza della vita quotidiana. Questo vuol dire andare oltre la condizione presente dell'individuo, superare l’accettazione del soggetto così come si manifesta nel qui ed ora, per proiettarsi invece nel pieno delle dinamiche formative, anche a costo di rimettere sempre in discussione mezzi e finalità, in vista del traguardo da raggiungere[16].
La sfida pedagogica, professionalmente intesa, non accetta di adagiarsi in se stessi o su gli altri ma stimola a reagire costantemente, aiutando a convogliare forze, risorse ed energie affinché il soggetto riesca ad uscire dalla propria difficoltà. Aiutare a capire, a riflettere, a stare con gli altri, ad accettarsi, significa proprio predisporre uno spazio (fisico e relazionale insieme) affinché il cambiamento possa manifestarsi, mettendo il soggetto nella condizione di poter utilizzare gli strumenti messi a disposizione dalla relazione e cominciare così da rielaborare vecchi schemi per proporre forme nuove, arricchite da pratiche e stili comunicativi diversi.
La pedagogia moderna orienta gli sforzi verso la possibilità di costruire una relazione educativa  tale, da consentire al soggetto di ripensarsi e ricomprendersi all'interno di una cornice formativa più ampia rispetto a quella vissuta fino ad allora, così da collocarsi e riorientarsi in maniera funzionale, in armonia con la propria natura più autentica.
La pedagogia di oggi gioca insomma le sue carte in un preciso ambito, quello della cura di sé, tenendo conto della specificità di ognuno e della particolare situazione (contesto) da affrontare. Insomma, il nocciolo della questione sta nel riuscire a rilevare in ogni intervento educativo l'unicità e l’ irripetibilità del soggetto con il quale entriamo in relazione. La pedagogia si coagula all'interno di un contesto denso di problematicità e di complessità, di incertezze e di equilibri instabili che necessitano di continui ripensamenti ed aggiustamenti affinché le azioni educative non si rivelino eccessivamente intrusive e quindi prive  di una vera e propria caratura formativa, né troppo lasciate al caso perché si corre altrimenti il rischio di lasciare il soggetto sprovvisto di orientatori e di regolatori, necessari per prevenire ogni forma di deriva esistenziale. Molti possono essere i fattori che compongono una problematica pedagogica: le difficoltà delle relazioni genitori-figli, gli svantaggi sociali, i conflitti culturali, l'inserimento delle persone diversamente abili a scuola, i frequenti fenomeni di bullismo, ecc.; tutti questi sono  fattori che devono essere oggetto di specifici interventi educativi, altrimenti il rischio è quello di vivere la giornata aspettando che il tempo faccia la sua parte e che l’insegnante lasci quindi tutto al caso. L’agire pedagogico prevede proprio di mettere insieme tutti quegli elementi che si manifestano all’interno della relazione, cercandone un senso al fine di preparare gli strumenti necessari in vista di un fine comune da raggiungere. Come da sempre ci insegnano gli antichi, educare significa "tirar fuori" ciò che è dentro alla persona, che, detto in altri termini, vuol dire semplicemente  valorizzare quanto di meglio ci sia potenzialmente in un individuo; ora, siccome  l'educazione consiste in un rapporto tra due persone, un educatore ed un educando, o un docente e la classe, occorre sempre adeguarsi (e di conseguenza calibrare l'intervento educativo) al livello dell'educando, comprendendo i suoi bisogni e incentivando le sue competenze[17].





















2. Riflessioni sul corso di pedagogia sociale 
Lo studio della  pedagogia sociale in questo corso di specializzazione mi ha consentito di maturare importanti riflessioni nell'ambito metodologico e didattico, nonché sulla disciplina pedagogica vera e propria. Per quanto concerne gli aspetti pedagogici, è importante dire che senza una adeguata riflessione sui processi formativi non è attuabile nessun intervento educativo adeguato perché verrebbe a mancare la struttura concettuale necessaria per definire gli obiettivi da raggiungere e i mezzi più idonei e funzionali da adottare.
La pedagogia sociale è la disciplina che, prendendo le mosse dalla pedagogia generale, restringe il proprio campo di studio e di intervento su specifiche realtà in modo da rilevare le problematiche particolari, analizzarle e cercare metodi educativi adeguati per risolverle.
Il lavoro che ne deriva non è semplice perché costringe a pensare in termini di complessità, ovvero di ragionare a partire da una scansione delle problematiche sociali, delle specificità psicologiche degli utenti (allievi, ecc.), dall'idea di uomo-cittadino che vogliamo arrivare a determinare (problematiche antropologiche).
Durante il corso abbiamo infatti visto come la sociologia sia strettamente correlata con le problematiche pedagogiche e come aiuti alla riflessioni pedagogica stessa, facendo chiarezza su quelli che sono i valori determinanti di una specifica realtà e i pericoli delle derive formative, dettate dai disvalori e dall'azione invasiva dei media.
Il corso affrontato ha infatti messo in evidenza le riflessioni  sociologiche più importanti di questo secolo e di quello scorso, centrando l'attenzione sulle dinamiche comunicative e sugli aspetti fondamentali della relazione, arrivando a cogliere quelle specifiche del rapporto maestro /allievo.
Se nella pedagogia dell’ottocento l’educazione è concepita come un processo chiuso, modernamente invece, l’avventura formativa è vista come un percorso continuo e mai concluso ed è per questo che spesso nella pedagogia sociale si fa riferimento alla metafora del viaggio. La relazione educativa si prefigura quindi come un viaggio verso l’altro, dove la comunicazione rappresenta un veicolo fondamentale affinché si realizzi il processo di maturazione e di crescita dell’allievo. La comunicazione in ambito educativo è stato oggetto di studio di filosofi come Habermas, il quale, ha indagato a lungo sulle problematiche legate alla comunicazione e alla relazione interpersonale, inoltre, altri approfonditi studi hanno mostrato come sia importante per una comunicazione di qualità la reciprocità del riconoscimento.
La pedagogia è stata inoltre inquadrata attraverso un confronto dialettico con l’etologia, mostrando sia le ricerche di Lorenz basate sugli istinti ereditati geneticamente, sia quelle di Eibsfeldt  sulla socievolezza dell’essere umano con tendenze all’aggressività e alla pulsione di fuga come reazione ad una possibile minaccia.
Si arriva progressivamente a definire la relazione educativa come forma di liberazione e miglioramento reciproco, in cui l’evoluzione del maestro e dell’allievo è dettata dall’asimmetria della relazione stessa. Qui si giunge ad inquadrare l’uomo e le sue dinamiche relazionali all’interno della comunità, mostrando come barman, sociologo di fama  mondiale sia arrivato a distinguere tra comunità etiche e comunità estetiche, dove modernamente si sta assistendo allo sgretolamento dell’etica a favore del disimpegno, dell’individualismo e del sensazionalismo in tutti gli strati sociali.
La globalizzazione è un altro fenomeno di importanza pedagogica che ci aiuta a comprendere non soltanto il fenomeno dell’incessante cambiamento della struttura sociale e dei rapporti tra i suoi membri ma anche del progressivo annullamento delle distanze dovuto all’incremento dei mezzi di comunicazione sempre più precisi  e sofisticati.
Insomma, il percorso di pedagogia sociale affrontato, ha consentito di riflettere sulla società e sulle dinamiche educative attivate, consentendo di vagliare i diversi progetti formativi e i grandi cambiamenti ai quali occorre far riferimento per metterne in evidenza anche i conflitti e i contrasti che emergono continuamente. La scuola, principale agenzia educativa, ma anche i media, la famiglia, ecc., propongono e spingono le nuove generazioni ad intraprendere cammini educativi che devono essere necessariamente vagliati dalla riflessione pedagogica attuale, soprattutto per mettere in luce rischi e potenzialità che conseguono a determinate scelte. La pedagogia sociale, insomma, dimostra di essere una disciplina interessata ad esaminare tipi e modelli di intervento educativo, cercando di cogliere la valenza sociale nell’atto di insegnare o di educare; da questa premessa si può quindi arrivare ad ipotizzare la realizzazione di una teoria pedagogica che abbia per oggetto la reale emancipazione dell’uomo nel senso di attuazione sia delle potenzialità latenti, sia di perfezionamento del progetto educativo ipotizzato per la costruzione dell’avvenire individuale.
La funzione delle istituzioni è quindi centrale affinché l’uomo non sia lasciato solo in preda ai propri istinti ma riesca invece a manifestare la propria umanità costruendola giorno dopo giorno attraverso la scuola e l’educazione.
L’educatore, come sostenevano anche Platone, Schopenhauer e Nietzsche, rappresenta sempre una figura liberatrice, ovvero la persona in grado di aiutare l’uomo dalle catene interiori, arrivando così a determinare un cambiamento positivo.
La pedagogia non è, a differenza di altre discipline, un sapere originario ma è concepita da sempre come una pratica che ha un carattere derivato dall’esperienza, dalla pratica di chi, occupandosi giorno dopo giorno dei problemi educativi, deve rispondere in modo consono ai bisogni e ai problemi educativi degli utenti.
La pedagogia si interroga allora sui valori determinanti di quella società in quel preciso frangente storico, andando alla ricerca e scandagliando in modo meticoloso il fragile terreno dei vissuti individuali, così da poter ricavare quegli indicatori necessari a fungere da orientatori, ovvero da bussola dell’agire educativo stesso.
 Da quanto detto si capisce allora che la pedagogia sociale deve il proprio contributo non solo alla pedagogia generale ma anche alla filosofia dell’educazione, in quanto scienza che si occupa del linguaggio della pedagogia stessa e dei fini che l’atto educativo deve conseguire, senza perdere mai contatti con scienze empiriche quali la sociologia, l’antropologia, la psicologia, l’etologia, ecc.
Questo dialogo continuo con le discipline cugine, aiuta la pedagogia sociale ad incrementare le conoscenze necessarie a dar corpo all’agire educativo stesso, consentendo di concepire l’uomo come un qualcosa che è già in potenza quello che deve divenire, in modo da assecondare sempre le diverse potenzialità attraverso il proponimento di nuove occasioni esperienziali.
Educare è quindi realizzare se stessi aiutando gli altri a diventare quello che sono, ovvero perfezionando gli altri; tutto questo è possibile soltanto se l’educatore sente di perfezionare se stesso attraverso la volontà ferrea di voler migliorare chi ha davanti a sé, coinvolto nella relazione educativa.
Questa è stata la lezione fondamentale di Don Lorenzo Dilani che, concependo la relazione educativa in maniera asimmetrica secondo il principio educatore/discente, ha sempre sostenuto che il fine dell’agire educativo è quello di rendere liberi gli allievi, autonomi pensatori, senza bisogno di nessuna autorità o guida.
Il fine ultimo dell’intervento educativo è quello di riuscire a fare a meno dell’educatore stesso. L’educazione assume gradualmente un volto diverso, infatti, se anticamente si concepiva il rapporto educativo come il mezzo necessario per travasare le conoscenze da chi sa a chi non conosce, più modernamente questo rapporto si concepisce come la via privilegiata per aiutare la persona a fare da sola, arrivando a far coincidere l’educazione con l’idea stessa di autoeducazione.
Secondo la tradizione psicoanalitica, educare vuol dire in primo luogo far chiarezza nel mondo emotivo di chi svolge questo compito, autoeducandosi a sua volta, altrimenti, risulta impossibile innescare processi di questo tipo se chi ha il compito di insegnare non si è a sua volta autoeducato e non ha affrontato in modo diretto le difficoltà legate al faticoso cammino dell’autoindagine.
Senza autoeducazione non è possibile quindi né insegnare né educare; non è possibile cioè consentire di instaurare una relazione solida, basata sulla fiducia, che consenta all’allievo di costruirsi una visione del mondo specifica, frutto del proprio personale sentire  e pensare, simbolo dell’autonomia acquista.
Attraverso l’educazione l’allievo agisce, fa e nel fare apprende; l’azione è indispensabile nel processo di apprendimento, infatti, non si può apprendere se prima non si agisce.
Nell’espressione di matrice Montessoriana “aiutami a fare da solo” è implicito l’innesco necessario sia all’atto del capire che a quello del crecere; nessuno può imparare al posto di un altro, ecco perché nel fare scuola si deve sempre coinvolgere non solo la mente, ma anche il corpo e soprattutto il cuore di chi apprende. Un insegnante che riesce ad instaurare una relazione educativa fondata sui principi dell’autoeducazione, ovvero al di là di ogni intervento autoritario e dannosamente conformistico, riesce sicuramente a fare appello all’impegno e alla partecipazione attiva del soggetto, mettendolo nelle condizioni di esprimere le proprie inclinazioni ed attitudini.
Indottrinamento e plagio sono due termini in netto contrasto con il naturale svolgersi del processo formativo, eppure, ancora oggi si assiste alla continua volontà di piegare gli allievi alla volontà di far assumere forme socialmente accettabili ma contrarie alle reali tendenze del soggetto in questione. Obbedienza e sottomissione sono contrari alla realizzazione di una educazione flessibile capace di realizzare il soggetto compiutamente, invece, la libertà è l’unico valore in grado di aiutare gli allievi a scoprirsi progressivamente nella loro unicità.
La libertà non va confusa però con il libero arbitrio, infatti, anche l’indifferenza rappresenta un grosso ostacolo all’autentica attuazione del delicato meccanismo formativo; è il legame educativo che consente di diventare liberi perché anche se può sembrare un paradosso,  senza legami non si sperimenta mai la pienezza dell’autonomia e della libera espressone di sé.
Ora,  la pedagogia ha conosciuto un periodo parecchio fertile, soprattutto nel periodo del romanticismo, con il romanzo di formazione e l’idea sempre presente che l’uomo potesse e avesse il preciso compito di coltivare l’idea di umanità che custodisce dentro di sé, infatti, ancora oggi sono attualissime la concezione della trasformazone della personalità la crescita interiore, del far emergere le potenzialità latenti e, soprattutto, del rischio (da accettare) di perdersi affrontando l’avventura formativa. Queste idee, ancora oggi si sposano all’interno di una società, come la nostra, dove educarsi significa accettare il rischio di smarrirsi all’interno di un vortice di proposte e di sentieri da seguire, camminando sempre su quel filo sottile e delicato che consente di incontrare il mondo e di fare esperienza della realtà,  consentendo anche lo sradicamento dal terreno delle certezze e delle abitudini, a favore invece del rischio e della fatica di cambiare.
Il tema dell’inquietudine sempre presente nei vissuti dei letterati moderni sta sempre qui, nell’oltrepassare i confini della propria mente e delle esperienze limitate e limitanti, rimettendo in gioco certezze magari acquisite nel tempo e che ora si scoprono essere inadeguate a fermare il desiderio di scoperta e di avventura.
Andare oltre i propri vissuti per riscoprirsi in qualcosa di diverso e di strutturalmente diversificato, è alla base del cammino formativo, dell’avventura esperienziale che aiuta a riflettere su se stessi e su ciò che vogliamo diventare; da qui la metafora del viaggio, tanto cara a chi si occupa di formazione, in quanto cosciente del fatto che senza la volontà di cambiamento non si innesca nessun processo di automiglioramento.
Certo, oggi le cose stanno diversamente, oggi l’uomo deve affrontare una complessità di situazioni e di mutamenti continui, deve affrontare delicati e difficili temi come l’integrazione e la convivenza con persone di cultura diversa, deve convivere con l’incertezza economica dettata dai mutamenti economici di portata globale, deve per certi versi arrendersi all’evidenza di un mondo ormai globalizzato dove le singole differenze tendono a scomparire e a non essere più considerate un bene da difendere. Quale educazione allora? Quale itinerario formativo risulta essere plausibile per educare il cittadino di domani ad affrontare una società che tende a sgretolarsi, sempre in preda ad eccessi individualistici, consapevoli che il crollo delle certezze passate, come la religione, la politica e la comunità, non fanno altro che alimentare una concezione della vita fondata sull’estetica, il godimento immediato ed il denaro?
Ecco profilarsi all’orizzonte, allora, un altro grande tema tanto caro alla riflessione pedagogica e che da diversi anni rappresenta il fulcro dei dibattiti interni anche alla scuola stessa; il consumismo.
Questo termine, forse un po’ troppo abusato o comunque additato come un male imperante, rappresenta la costante della nostra quotidianità. Da ogni parte sentiamo dire che viviamo in una società materialista, dove tutto è ridotto a merce, dove i rapporti sono ridotti a scambi di tipo commerciale, tuttavia, poche sono state le alternative elaborate e deboli si sono rivelate le risposte alternative dalle agenzie come la scuola.
Il consumismo fa parte della nostra vita, non possiamo debellarlo ma dobbiamo imparare a controllarlo e a gestirlo in maniera critica e consapevole. Questo fenomeno è stato ed è tutt’ oggi oggetto di studio di psicologi e sociologi ed interessanti sono i meccanismi che emergono e vengono messi in luce per far capire come sia possibile condizionare le scelte delle persone nei consumi di tutti i giorni.
Per capire da un punto di vista pedagogico come affrontare il tema del consumismo ed elaborare un atteggiamento educativo in grado di indurre gli allievi a riflettere in modo critico e personale di fronte a questo fenomeno omologante ed estremamente potente, occorre analizzarne la genesi e proporre spunti di riflessione che abbiano per oggetto le mode e le tendenze moderne..
Il consumismo affonda le radici in un terreno dove abbondano valori post materialisti, ovvero in un terreno che ha fatto dell’eccedenze il simbolo del benessere e della realizzazione; in questo modo, spiega lo psicologo Inglehart, tutta la nostra vita ruota intorno all’estetica dei consumi, soppiantando l’etica del lavoro a favore della ricerca del piacere individuale[18].
Tutto questo rappresenta una sfida pedagogica importante; le analisi da lui condotte consentono di spostare le problematiche esposte in ambito psicologico e sociologico, traslandole sul piano educativo e didattico, ponendosi la domanda fondamentale su quali possano essere le  ripercussioni sul processo di crescita degli allievi e su quali possano essere i mezzi che la scuola dispone per arginare i danni delle moderne tendenze sociali disgreganti ed eccessivamente individualiste.   
  
   










3. Le pratiche pedagogiche: riflessioni sui metodi e le tecniche che ho adottato.
Come insegnante e pedagogista, più volte mi sono trovato in difficoltà nel dover organizzare le attività educativa e didattiche, soprattutto quando avevo a che fare con bambini o adolescenti problematici che manifestavano un forte disinteresse verso le discipline scolastiche.
La difficoltà principale è sempre stata quella di reperire il materiale necessario all’organizzazione delle attività laboratoriale in vista degli obiettivi da raggiungere, inoltre, anche il problema del riuscire a mantenere vivo l’interesse degli alunni ha comunque più volte reso complicato il lavoro formativo da attuare. Insomma, capita nel tempo di trovarsi in situazioni di lavoro in cui per una serie di fattori si pone la domanda: cosa gli faccio fare, adesso a questi ragazzi? Come impiego il tempo che ho a disposizione? In vista di quali obiettivi propongo questa specifica attività?
La ricerca bibliografica mi ha consentito in diverse occasioni di  costruirmi da solo gli strumenti necessari all’intervento educativo prefisso e centrale è stata per me, in questi ultimi anni di lavoro, la categoria della “cura” che è emersa dalla ricerca in ambito pedagogico da parte delle facoltà di scienze della formazione. E’ proprio dalla riflessione sul concetto di cura che sono emerse conseguentemente molte proposte didattiche che sono servite per organizzare laboratori creativi  e attività didattiche in aula.
La cura in pedagogia si discosta molto da quella praticata in psicoterapia, in psichiatria o in psicoanalisi perché è molto più polimorfa, capace di dipanare le potenzialità soggettive, direttiva nel suo momento educativo e non direttiva nel momento più formativo, determinandosi come processo continuo, sempre in cerca di nuovi equilibri (mai definitivi), da cogliere nella sua problematicità e complessità.
Ho quindi cominciato a pensare che il volto della cura pedagogica fosse dismorfico perché continuamente attraversato da tensionalità e riflessività, tra dialetticità e dinamicità, in un continuo gioco di sponda tra necessità di “tirar fuori” dal soggetto attraverso un atto di guida ad un tempo e alla valorizzazione della sua autonomia e della sua identità soggettiva, ad un altro. Insomma, per dirla con Cambi prendere in cura il soggetto significa assumere su di sé l’onere della crescita che si realizza nell’autonomia del soggetto da guidare e valorizzare nel suo cammino, tramite comprensione e progettualità con dedizione, empatia, atto donativo e giudizio, un insieme che trova nell’arte il suo traguardo[19].
E’ da queste premesse che sono partito per cominciare a capire la logica da adottare per organizzare i laboratori con bambini e adolescenti in difficoltà, cercando di abbracciare una filosofia che mi consentisse di motivare le scelte formative da proporre: letture, scritture di sé, narrazione di esperienze, ecc. Ho capito che  la cura in pedagogia si lega molto di più alle discipline umanistiche che non alla tecnica, discostandosi in questo modo dalla cura medica che si articola maggiormente alla scienza e al suo metodo sperimentale. Con questo non voglio affermare che il metodo pedagogico sia quindi costruito in modo non di rigoroso, anzi, il suo specifico è proprio quello di curare senza patologizzare, sostenendo il soggetto nella ricerca di un equilibrio del sé e di una integrazione sociale. La cura si indirizza quindi a soggetti di ogni età ed estrazione sociale, si rivolge ai disagi di natura diversa che vanno dalla scuola, al lavoro, dalla famiglia al tempo libero, consentendo il progressivo risveglio del sé attraverso il coinvolgimento in progetti formativi nutriti di dialogo che ben si innestano all’interno di questa società schizofrenica e priva di orientamenti stabili. Ho scelto volutamente questo concetto/guida alle mie esperienze laboratoriali perché mi sembra che la cura di stampo pedagogico non si conformi ma liberi e si realizzi attraverso quel processo maieutico di cui Platone ci ha parlato, in grado di stimolare una vera e propria educazione interiore[20] intesa come capacità di coltivare e mettere al centro la propria umanità. 
Ho cercato di proporre progetti alle scuole di ogni ordine e grado per bambini ed adolescenti in situazione di disagio, che avessero al centro il concetto di cura  pedagogicamente inteso. Parlando con i dirigenti volevo far emergere  come nella cura di sé emergesse sempre il concetto di autoriflessione  in grado di rendere ogni individuo capitano di se stesso in un processo che mira a dar corpo ad un equilibrio, se pur temporaneo, instabile e dinamico, da dover continuamente monitorare e aggiustare. Tutto ciò ho cercato di concretizzarlo proponendo azioni e attività  ben precise, calibrate sui soggetti in formazione, che traessero il proprio nutrimento dalle discipline umanistiche ed artistiche, distillando i diversi saperi in modo da accordarli e curvarli in un’ottica di stampo squisitamente pedagogica, così da attivare  spunti di riflessione tali, da condurre il soggetto a divenire sempre più persona.
      Ho provato a discutere con i docenti e i dirigenti sulla funzione formativa della narrazione ad esempio, ossia, sull’uso strumentale che si fa della narrazione per raggiungere fini pedagogici, come ad esempio lo sviluppo delle capacità analitiche, riflessive, attuabili anche attraverso il cinema e la sua critica, oppure mediante la musica, partecipando così attivamente alla costruzione dei saperi e della personalità. Anche i docenti con cui parlavo erano concordi sul fatto che attraverso la narrazione si costruisce l’immaginario conferendogli ordine e senso, grazie alla capacità del linguaggio di essere ad un tempo specchio di forme di vita e gioco linguistico complesso, consentendo di tessere una rete di significati e simboli capaci di interpretare e cogliere il valore e il senso della realtà. Storie che, secondo me, il pedagogista può utilizzare e manipolare, oscillando tra il mito e la fantascienza, tra la fiaba e il racconto, così da sintetizzare significati simbolici profondi che possono servire anche per imparare il metodo del narrare a se stessi, inteso come esperienza formativa che permette di riflettere sugli stati d’animo soggettivi, esprimibili attraverso la poesia, la forma del diario o la musica stessa, strumenti diversi che condividono il fine comune del farsi uomini, fissando una identità per certi versi stabile e che risponde al preciso bisogno di autoformazione[21].  
Attraverso i laboratori proposti, soprattutto con la scuola media, ho capito che il lavoro della narrazione si lega fortemente (anche se non necessariamente) a quello della lettura, altro potente strumento formativo che consente di prendere le distanze dal proprio vissuto più immediato per tornare in contatto con se stessi, lasciandosi per un momento alle spalle le distrazioni quotidiane; da queste premesse si comincia a proiettarsi verso un mondo diverso da quello fino ad oggi esperito, consentendo di confrontarsi con realtà altre, diverse da quelle fino ad oggi pensate, facendosi trasportare dalla potenza evocatrice della parola ed avvolgere dalla sua capacità particolare di costruzione e ricostruzione di sensi[22]. La scoperta di poter entrare dentro una storia, in un cumulo di esperienze dotate di senso, attiva processi riflessivi sul racconto e sui concetti che sono la materia prima del mio lavoro di pedagogista, sia con il bambino che con l’adolescente, in quanto consente di capire come questi viva il proprio mondo e come possa trasformarla facendo appello ai propri strumenti concettuali. I bambini e i ragazzi dei laboratori proposti, piano piano capivano che la lettura non aiuta solo a scoprire, a far emergere ma anche a dilatare, ad ampliare i propri orizzonti, a trovare dentro di sé gli impulsi per crescere ed affinarsi, consentendo al soggetto di travasare il passato nel presente e viceversa, una pratica per coltivare se stessi attraverso l’esercizio della libertà e della riflessività, un aprirsi al mondo che consente di vivere l’avventura di un viaggio, dando forma alla propria mente[23].
Dentro la narrazione sta tutta la complessità della costruzione del mondo interiore di questi ragazzi e questi la vivevano da una parte come alimento pedagogico in grado di coltivare e dilatare tale spazio “spirituale” , dall’altra come strumento in grado di originare forme espressive individuali, frutto di personali elaborazioni che contengono una forte carica comunicativa. Per me utilizzare lo strumento della narrazione, ha significato porre l’individuo o il gruppo in una situazione di raccoglimento interiore favorendo una sospensione del vivere immediato attraverso un sottile  dialogo stretto tra sé e sé che si è realizzato nel rapporto col libro, sia esso un romanzo, un testo di poesie o una raccolta di racconti.
Lavorare con la lettura ha significato per me non far sclerotizzare l’ interiorità degli allievi, non consentire cioè la distrofia della vita mentale, ecco perché è importante la lettura, intesa come alimento culturale capace di far dilatare la consapevolezza di se stessi, del mondo e delle proprie possibilità, al di là di ogni tentativo di riduzione o di adeguamento ad una vita monocorde, opaca, prestabilita e confezionata ad arte da altri, per noi[24].
Per me tutto questo si traduce come possibilità di coltivare lo spazio di riflessione messo in atto dall’attività di lettura mediante un continuo andirivieni di nozioni, storie, inglobamenti, assimilazioni, costruzioni e rimessa in discussione, allenando il soggetto a porsi domande, a formulare risposte, ad interrogarsi e a muoversi con disinvoltura nel dubbio, nell’ipotetico, nel mondo moderno dell’incertezza, dal quale si può uscirne più rinforzati attraverso l’esercizio stesso del pensare.
Alla pratica della lettura ho affiancato spesso anche quella della scrittura, dove, al di là dello strumento utilizzato (penna o computer), ho potuto promuovere la scrittura di sé come metodo di crescita e potenziamento, in grado di saldare il sentire del soggetto con la propria esperienza di vita, esprimibile in modo creativo attraverso il linguaggio scritto. Il vissuto soggettivo, materia importante di lavoro pedagogico, si riflette nella scrittura in maniera incisiva e amplificata, consentendo all’individuo di riappropriarsi della propria esperienza attraverso una continua revisione delle azioni e degli accadimenti trascorsi, distillando il materiale raccolto alla luce del presente.
Gli alunni che scrivevano in modo autobiografico sperimentavano l’opportunità di cogliersi e ricollocarsi nuovamente nell’oggi, nel qui ed ora, di individuare i punti e le zone nevralgiche dei propri trascorsi per riattualizzarli, apprendendo dalle passate esperienze in modo funzionale, così da riorientarsi nel sentiero della propria esistenza, che, se realmente autentico, non è mai già tracciato ma tutto da esplorare ed inventare. Il processo autobiografico si è rivelato uno strumento formativo eccezionale che ha  permesso a questi ragazzi di riappropriarsi di se stessi, esigenza oggi sempre più avvertita dato che la tendenza omologatrice della società moderna spinge un po’ tutti a disperdersi nel “si” quotidiano, nelle routine lavorative, nell’abbassamento collettivo della soglia attentiva, lasciandoci soli in balia degli eventi, spesso senza “briccole”[25]  o punti di riferimento, con il rischio grosso di andare alla deriva. Parlando con gli insegnanti, anche loro concordavano con me sul fatto che se è vero che rispetto al passato le possibilità di decisione sono aumentate in maniera esponenziale è anche vero che l’eccessiva stimolazione e la percezione delle infinite modalità di scelta rendono non solo incapaci di distinguere l’effimero dal sostanziale ma conferiscono un senso di immobilità e impossibilità. Oggi per un giovane è facile navigare in acque oscure senza un tracciato, senza riferimenti utili e questo può significare anche decretare a se stessi una condanna a morte, ecco perché ad un mondo che cambia repentinamente non si può rispondere con una metamorfosi acritica e impulsiva; i momenti critici della vita non possono essere affrontati con un adeguamento irriflessivo alle circostanze con il rischio di trasformarsi  in tante banderuole al vento, privi di ogni forma autolegislativa.
E’ vero che le difficoltà della vita e i momenti di crisi inducono a rimettersi in discussione e a ricollocarsi nel cammino esistenziale ma questo non significa che ciò debba avvenire senza il consenso del volere personale, delegando altri nella decisione dei modi, termini e aspetti del proprio esistere futuro.      
  Questo aspetto è emerso in modo dirompente all’interno dei diversi laboratori proposti ed importante sottolinearlo perché il rischio è di constatare l’incertezza o l’inconsistenza della realtà attuale e di adagiarsi su questa riflessione rispondendo con la rinuncia o, peggio ancora, con l’adeguamento acritico. L’autobiografia mi ha consentito, in ambito scolastico, di superare tali rischi e di attivare importanti processi interpretativi  ed auto riflessivi in grado di far uscire i ragazzi da questo travaglio rinforzati e con un nuovo volto, frutto della tessitura di un’ identità più matura che, seppur mai definitiva, è comunque per adesso in grado di guidare verso orizzonti di senso attuali. Insomma, per dirla con Cambi, la pratica autobiografica abbiamo consentito di interpretare l’identità dei soggetti e il gioco stesso dei loro ruoli sociali, come assunzione della <<cura di sé>> intesa sia come travaglio individuale, sia come rielaborazione di una nuova traiettoria di senso. Lavorare con gli allievi delle scuole medie ha significato riflettere sul concetto di ricostruzione  e radicamento nel proprio statuto problematico attraverso quel farsi carico di sé che altro non è se non l’assumersi come <<esistenza ferita>> (Moravia), ovvero come custodi del proprio Io, mettendo alla luce un sé più stabile, frutto dell’interpretazione, della riflessività e della rielaborazione del processo formativo individuale[26].
In definitiva, mi sembra di poter affermare  che la scrittura è coltivazione pratica di sé ad un tempo ed un piacere ad un altro, infatti, la valenza formativa si ha quando per chi scrive tale attività è volontaria e fonte di soddisfazione ed è qui che è stata la mia difficoltà. Stando a contatto con soggetti con difficoltà di tipo diverso, con trascorsi costellati di rifiuti scolastici e quindi restii a molte attività che somigliano o comunque richiamino alla memoria  le dolorose esperienze avvenute nelle aule, dovevo studiare le strategie più idonee affinché chiunque potesse maturare la consapevolezza che solo apprendendo si cresce, si cambia e si impara a divenire continuamente[27].
Il cuore del mio lavoro pedagogico è stato allora quello aiutare a rileggere i percorsi esistenziali, tratteggiando gli eventi costitutivi in modo da fissare una direzione di marcia e risvegliando in questo modo il desiderio dell’avventura formativa intesa come atto capace di far acquisire forma attraverso il riaccendere la memoria su questioni e fatti, fissandone gli eventi-segni e procedendo via via nel senso della direzione emergente, così da prenderne coscienza e cominciare con l’avventura esplorativa del proprio essere stati e delle possibilità di divenire. La scrittura di sé mi è servita  fondamentalmente nell’utilizza le competenze maturate per stimolare il soggetto alla responsabilità di se stesso, de-dogmatizzandolo e rendendolo capace di pensarsi liberamente perché  svincolato da pregiudizi, così da sperimentare il processo di auto-costruzione che diviene un farsi sé a partire da se stessi. 
     Altra pratica pedagogica che ho adottato è stata la riflessione sull’esperienza del viaggio, del cammino, dell’attraversare spazi, in quanto ciascuno di noi essendo sempre soggetto immerso nel tempo e nello spazio, è costantemente esposto alla necessità di spostarsi in luoghi nuovi e diversi, accendendo quindi la possibilità di riflessione e di affinare la sensibilità e l’identità soggettiva.
Ecco che per me si è aperta la possibilità di affiancare il ragazzo nel suo personale cammino, iniziando a guardare la realtà, spesso data per scontato, sotto una luce nuova, più genuina, più immediata, dove la conoscenza non è data dall’atteggiamento “prensile” tipico della società moderna, ma dall’interrogare luoghi, eventi ed oggetti incontrati, rispettandone la collocazione e la natura. Si trattava per me di aiutare a capire che conoscere non significa possedere, che apprendere non vuol dire piegare la realtà alla volontà soggettiva snaturandola e deformandola, ma più semplicemente si tratta di contemplare, indagare in maniera non invasiva, attraversare il tutto con lo sguardo e con il passo, cercando di comprendere, attivando continui processi investigativi di natura mentale, fatti di domande, di possibili risposte, di interrogativi ulteriori[28].
Aiutare a conoscere camminando, attraversando spazi come strade, sentieri o il semplice giardino della scuola, rappresentava un momento importante per l’alunno in formazione che poteva iniziare a comprendere la realtà quotidiana attraverso semplici esperienze meditative, ben delineate da Demetrio[29] e che prevede l’esercizio dei cinque sensi, ossia il tatto, il gusto, l’udito, l’olfatto e la vista. 
Ovviamente non si trattava di apprendere tecniche o sequenze di esercizi da utilizzare in una sorta di “palestra interiore” ma semplicemente di risvegliare la facoltà intuitiva da una parte e il senso di appartenenza ad un tutto organizzato dall’altra, ovvero, che si può dilatare l’orizzonte della  coscienza facendo appello alle proprie facoltà mentali e corporee. In questo modo ci siamo da confrontati con la natura e resi partecipi dei suoi ritmi, riscoprendo la possibilità di essere viaggiatori che procedono nel mondo attraversando se stessi, arricchendosi con il continuo ruminare sulle proprie riflessioni.
Si comprendeva attraverso semplici passeggiate e dialoghi su quello che vedevamo, l’importanza di riappropriarsi di uno spazio interiore, senza bisogno di strumenti particolari.
 Abbiamo anche approfondito temi di natura più spirituale, accorgendoci che non erano necessari né incensi, né rituali, che non occorrono testi sacri e neppure ortodosse posture ma semplicemente l’attitudine o la volontà di coltivare la dimensione profonda soggettiva mediante l’esercizio dell’umiltà, della semplicità e della ricezione del mondo, in un cammino silenzioso, dove i cinque sensi abbiano la possibilità di percepire la realtà nel suo insieme.
Ecco che insieme abbiamo lavorato su queste particolari esperienze, sulle idee che emergevano, sulle sensazioni provate e lo facevamo attraverso il racconto, la scrittura di un diario o di un taccuino, riportando anche schizzi, immagini abbozzate o disegni, raccogliendo magari qualche traccia del proprio cammino, come una foglia, un sasso o comunque tutto ciò sia ritenuto degno di indagine e di riflessione.
Il lavoro del cammino proposto si traduceva in sintesi in un attraversare che saldava insieme il momento interiore dell’io con uno esteriore degli spazi/luoghi, decifrando i segni che emergevano in modo da interpretarli e riportarli nella propria conoscenza. Si riscopriva  il significato autentico del viaggio che si fa scoperta, avventura e un rivivere esperienze trascorse a cui adesso si attribuiscono nuovi significati, relativi ad un senso di natura psicologica, esistenziale e personale.
Un viaggio che spazia dal sociale, al naturale, da simbolico all’immaginario, carico sempre di suggestioni, comparazioni ed interrogazioni che ho potuto alimentare, facendo emergere domande su cosa sia la natura, sul perché delle continue trasformazioni dell’ambiente, sui motivi del degrado, ecc., il tutto al fine di esaltare quelle componenti più vive e uniche del soggetto, così da far emergere l’umanità, portandola oltre se stesso ed innalzandolo verso nuovi orizzonti.
Dal cammino interiore, sollecitato dall’esperienza dell’attraversare luoghi e dal contemplare paesaggi l’allievo veniva sollecitato al domandarsi, ossia ad indagare se stesso attraverso l’esperienza del mondo, un’attrazione verso quel mistero dell’esistere che avvicinava inevitabilmente ad una visione della vita meno materialista.
Cercavamo insieme una filosofia di vita che si facesse vocazione esistenziale esercitabile per le strade, in cammino o in solitudine, animati desiderio di non rassegnarsi alla disumanizzazione della società moderna e dalla volontà di cercare nel proprio vagabondare la propria soggettiva dimensione spirituale. Ho cercato insomma  di esercitare e approfondire una forma di riflessione e di dialogo, mossa dal dubbio anziché dal dogma, dove si risvegliasse il bisogno umano di cercare e possibilmente di trovare un senso profondo e personale alla vita quotidiana, mondana e collettiva, riscoprendo così il soggettivo senso dell’esistenza e del mondo che abitiamo, fatto non solo di razionalità ma anche di bisogni arcaici intimamente connessi con la vita psichica, che possono essere educati e coltivati in modo da fornire un significato alla realtà vissuta [30]
Anche l’arte ha rappresentato un veicolo importante che ho potuti utilizzare per promuovere l’evoluzione personale ed animare così la vita mentale dei ragazzi; i linguaggi artistici, espressivi e simbolici, rappresentano un’esperienza estetica di ampia portata in grado di sensibilizzare lo spettatore o il lettore e stimolare la voglia di andare oltre, di indagare e di interrogare se stessi circa le emozioni suscitate, la loro forma, natura e intensità. La letteratura, le belle arti, la musica, il teatro e la poesia, sono universi che mettono a disposizione i loro linguaggi. Io li ho adottati in modo da  renderli comprensibili agli allievi con difficoltà di adattamento, facendoli divenire parti di loro stessi, attraverso architetture di espressioni e simboli che venendo reinterpretate sono entrate a far parte del loro bagaglio culturale e personale. Tali linguaggi sono riusciti ad assumere forme ed  intensità notevoli, in grado di risuonare nel soggetto in maniera creativa, aiutandolo ad integrare le parti del proprio sé alla luce di questa particolare esperienza formativa. Si capisce allora perché il teatro è spesso utilizzato con soggetti carcerati da riabilitare o con persone che vivono situazioni di forte disagio; la maschera e la capacità di rappresentare personaggi diversi, consentono di recuperare in parte alcuni aspetti la propria identità, sopravvissuti alla catastrofe, sommersi dalle macerie degli eventi e cominciare a costruire una nuova identità, frutto di nuove elaborazioni, ricuciture, ripensamenti[31]. Dal romanzo, alla poesia, dal teatro, alla musica, tutto ha concorso a collocare gli alunni nel pluralismo dei linguaggi e a filtrarne significati e simboli in modo analitico e dialettico, divenendo loro stessi partecipi di un’esperienza ideale armonicamente legata al bello e al sublime. Ed ancora, dalla contemplazione di un quadro alla meditazione poetica, dalla lettura appassionata alla scrittura di sé, io e questo gruppo di ragazzi potevamo spaziare dentro la storia della cultura e delle sue forme, assimilandone aspetti salienti e decantandone forme capaci di arricchire e dilatare gli spazi interiori, predisponendo all’ascolto e all’esaltazione del sé. 
Insomma l’ arte, come esperienza estetica, nella forma della poesia, della pittura o della musica ha assunto nei vari laboratori proposti un valore ed una funzione fondativa dell’esperienza soggettiva e della sua umanizzazione che, migrando dalle forme di cultura ai linguaggi spirituali, ha consentito di esperire il fascino dell’inusuale, dello stupore e della libertà di fronte ad un mondo incantato e privo di condizionamenti. Con l’arte ho sostenuto i ragazzi nel delicato processo di risveglio di se stessi e di enfatizzazione della propria sensibilità, oscillando continuamente tra ricerca di un momento di solitudine (per consentire un idoneo raccoglimento interiore) e l’evocazione interiore affinché tutto potesse sigillarsi in quel medium linguistico, ossia in quella radicazione del codice verbale che consente l’emergere dell’esperienza eccezionale interiore e fondativa che è propria del dire artistico/poetico[32].
Posso quindi dire che l’abilità consisteva proprio nel gestire il linguaggio o i linguaggi artistici al fine di promuovere una viva sensibilità interiore, consentendo di fornire un senso all’esperienza attraverso un contatto con la creatività personale. Tutto questo si traduceva in un’occasione importante che, soprattutto oggi, è rara tanto quanto necessaria, ovvero, aprirsi riflessivamente su se stessi per potenziarsi ed evolvere, cogliendoci sotto forme che, altrimenti, rischieremmo di ignorare per sempre. Si trattava allora di trovare attraverso l’arte un sentiero che, seppur orientante, consentisse l’ebbrezza di qualche smarrimento, confermando la natura “errante” della formazione che ha sempre il tratto costitutivo della ricerca, anche se spesso i tracciati si affievoliscono e divengono ambigui.
Gli alunni del laboratorio hanno maturato l’idea che la strada si fa camminando e da ogni sentiero lasciato ed in seguito ripreso, si determina un percorso formativo rinnovato che cerca di tracciare con nuovo sguardo l’orizzonte dell’esistenza. Le attività proposte si arricchivano continuamente di gesti, pensieri e parole sintetizzati in un continuum in grado di orientare nel cammino della vita. Spesso questi ragazzi si sentivano smarriti e ponevano  domande di ricerca di  senso, costringendo a fornire risposte che non potevano esaurirsi nel solo linguaggio parlato; l’arte allora interveniva prontamente perché abitua  all’apertura all’imprevedibile assumendo quel carattere di principio metodologico in grado di cogliere la realtà stessa nei suoi aspetti inaspettati ed  originali, capaci di obnubilare l’ovvio, il dato per scontato e le consuetudini mentali. Una pedagogia dello sguardo che invita a  cogliere la realtà formativa nel suo manifestarsi instabile e mutevole assumendo però l’etica della responsabilità come suo fondamento[33].  In sintesi, posso affermare che queste esperienze consentono agli insegnanti di apprendere dai loro stessi allievi, provando il senso di smarrimento dei loro alunni e assimilando le valenze formative del camminare e del perdersi per poi ritrovarsi più potenziati, attraverso il passeggiare, l’arte, la scrittura di sé e tutto ciò che contribuisce a riflettere su se stessi e sul proprio agire. 













4. Le funzioni del Pedagogista a Scuola
Essendo oltre che insegnante anche un pedagogista, ho sfruttato le conoscenze maturate al corso di specializzazione per riflettere sulla figura del pedagogista in generale e su un progetto pedagogico realizzato da alcuni anni fa in una scuola di Fucecchio.
L'introduzione del Pedagogista nella scuola, nonostante l'importanza della sua presenza all'interno della classe, risente ancora oggi di alcune  difficoltà relative al proprio ruolo, soffrendo talvolta le ambiguità e le contraddizioni dovute alla sua incerta definizione (il segreto professionale del medico e la possibilità di stendere una diagnosi funzionale) e delle sue applicazioni, oltre ad una poco riconosciuta qualità professionale.
Lavorando all’interno della classe come pedagogista dovevo comunque attenermi ad alcuni principi guida:
1) l'impegno a collaborare con i colleghi del Consiglio di classe e con il Gruppo di lavoro nell'impostazione e nella realizzazione del progetto educativo-didattico riferito all'alunno disabile; 2) la competenza correlata alla specializzazione didattica, a predisporre i relativi percorsi e strumenti; 3) la corresponsabilità dell'attività educativa e didattica complessiva del modulo o della classe; 4) compiti di collaborazione con le famiglie e le strutture sanitarie[34].
Solo negli ultimi anni si è ritenuto necessario valorizzare la formazione del Pedagogista riproponendo la dicitura “Pedagogia” nei diversi corsi di laurea magistrale, al posto delle troppo generiche “Scienze dell’Educazione”, cercando di fornire a questa figura professionale strumenti concettuali ed operativi meno dispersivi e più idonei al proprio ruolo lavorativo. Un traguardo importante questo, che mi ha consentito di godere di una formazione professionale al pari di tutti gli altri professionisti, vedendo riconosciuto, anche da parte di alcune istituzioni pubbliche, uno specifico ruolo all'interno della scuola.
Oggi al Pedagogista sono richieste competenze ben definite, tra cui:
. progettare e programmare gli interventi educativi
. costruire moduli didattico-educativi integrati
. costruire una documentazione
. promuovere incontri per favorire la collegialità
. realizzare strategie specifiche per l'apprendimento
Le conoscenze che un Pedagogista deve possedere riguardano:
. capacità di assumere conoscenza dell'alunno e della classe
. la conoscenza dello sviluppo, dei processi di apprendimento, delle dinamiche relazionali
. conoscenza delle difficoltà di apprendimento nelle varie situazioni di minorazione (in particolare nella relazione, comunicazione, autonomia)
. sussidi protesici, risorse tecnologiche
. processi interattivi tra scuola ed extrascuola
. modalità operative interdisciplinari con particolare riguardo al settore terapeutico-riabilitativo e sociale

Le abilità, invece, possono essere così sintetizzate:

. saper condurre un'osservazione sistematica
. saper raccogliere dati e analizzarli (finalizzati al progetto educativo e alla verifica)
. saper costruire un curriculum didattico specifico in rapporto alle potenzialità dell'alunno
. saper individuare le esperienze educative e didattiche
. saper usare metodiche e tecniche specifiche adeguate alla minorazione
. saper costruire modelli di integrazione tenuto conto delle risorse disponibili.

Infine gli atteggiamenti:

. capacità di interagire all'interno della situazione scolastica;
. capacità di interagire nella situazione extrascolastica[35]

L'attività che ho proposto nelle scuole prevedeva sempre il sapersi orientare nella descrizione, nella valutazione e nel trattamento di un alunno disabile, con particolare attenzione all'individuazione e valorizzazione delle abilità del bambino ed alle caratteristiche del contesto di integrazione.
 L'obiettivo generale era quello di acquisire modalità di osservazione relative a singole tipologie di disabilità ed al contesto di integrazione.
Gli obiettivi specifici, invece, riguardavano il saper osservare e descrivere un bambino disabile, oltre naturalmente al contesto di integrazione.
Dopo una prima fase di osservazione e raccolta di dati, iniziavo generalmente il percorso di progettazione, con interventi adeguati rivolti al bambino disabile ed al contesto di integrazione.  
Il lavoro ho sempre cercato di articolarlo in diverse fasi operative, che di seguito riporto.
Accoglienza: questa fase prevedeva la formazione del nuovo gruppo costituito dal pedagogista e gli insegnanti; la creazione di un clima di conoscenza, scambio e condivisione, oltre che alla presentazione dell'articolazione di progetto.
Orientamento: in questa fase veniva discusso l’inquadramento storico-normativo, i modelli di integrazione in Italia e in Europa, approfondendo i significati di menomazione, disabilità, handicap, al fine di accordarsi  sulla terminologia in uso a livello internazionale.
Progettazione: era il cuore del lavoro di gruppo dove si ricercavano sia gli strumenti per l'osservazione, sia quelli necessari alla raccolta dei dati, all’intervento didattico ed alla descrizione del bambino nel contesto della classe. Venivano definiti l’ambito di lavoro, gli strumenti da utilizzare, gli obiettivi a medio e lungo termine e le modalità di verifica finale.
Verifica: con i docenti venivano discussi i risultati raggiunti, confrontando i dati iniziali con quelli finali (dopo l’attuazione del progetto); in seguito venivano tracciate le linee di forza ed i punti deboli dell’ esperienza di lavoro, mettendo in evidenza i traguardi raggiunti e non, rimettendo in discussione l’impianto teorico del progetto, gli strumenti e le fasi attuate.
Per svolgere in maniera adeguata il proprio lavoro, occorreva inoltre conoscere il bambino ricostruendone:

-   la storia personale
-   l’evoluzione dei processi di sviluppo
-   il livello scolastico raggiunto
-   gli aspetti emotivo affettivi e socio relazionali[36]

 Conoscere il contesto familiare in relazione a:
-   il livello socio-economico-culturale
-   le caratteristiche del nucleo familiare
-   le dinamiche affettivo-relazionali
-   le modalità educative attuate
-   la percezione del problema
-   la disponibilità al cambiamento.

 Acquisire informazioni relative al contesto scolastico per quanto riguarda:
-   la conoscenza-comprensione delle problematiche del bambino
-   la situazione della classe e le dinamiche di gruppo
-   la percezione del bambino in questione
-   i rapporti genitori-insegnanti[37]
Per svolgere adeguatamente queste funzioni dovevo adottare stili relazionali adeguati, superando la tendenze maggiormente in uso in ambito scolastico, che sembravano essere quella di identificare i bambini disabili con la loro patologia. Molti insegnanti, infatti, leggendo le diagnosi stilate dalle ASL, rischiano di assumere un atteggiamento di tipo sanitario che non si addice a chi si occupa di pedagogia. Se in ambito medico occorre focalizzare l’attenzione sulla patologia, in ambito educativo didattico occorre invece prestare attenzione alle abilità residue e preoccuparsi di alimentarle per far sì che emergano compiutamente. Invece, spesso accade di identificare proprio la patologia con il soggetto, facendo diventare Tizio un ritardato,  un tetraplegico o un autistico. Questo vale anche per i bambini con disturbi di tipo cognitivo, dove si tende a considerare soltanto la dimensione intellettiva danneggiata,  come fosse separata dalle altre funzioni, altrettanto importanti, come la capacità di sentire, di immaginare,ecc., che insieme contribuiscono a definire l'assetto globale della persona. La concezione olistica, pilastro fondamentale della pedagogia attuale, mi ha aiutato a considerare il soggetto come una totalità integrata e specifica, non assimilabile ad altre individualità ed anche l'intelligenza non la considero più una realtà monolitica, un blocco unico non scomponibile nei suoi tratti costitutivi.
Un bambino con ritardo mentale non può essere considerato dai docenti semplicemente un disabile perché gli aspetti cognitivi, anche se rappresentano l'asse intorno al quale si determina il modo di essere del soggetto, non esauriscono mai la totalità dell’individuo che è sempre comunque qualcosa di più e di complesso rispetto alla sommatoria dei suoi tratti costitutivi. L’alunno, così come ogni individuo, si  caratterizza non soltanto per la particolare dimensione intellettiva, ma anche per gli aspetti senso-percettivi, affettivi, relazionali, ecc. ed è da qui che l’insegnante deve partire per cominciare a trovare le risorse, le capacità e tutte quelle attitudini che esistono, anche se soffocate dal peso della disabilità. Il soggetto con un disturbo cognitivo, quindi, manifesta una struttura della personalità che è anche frutto (ma non solo) della disabilità e del suo personale modo di adattarsi all’ambiente e di rispondere agli stimoli esterni. Per molto tempo questo tipo di patologia in età evolutiva è stata considerata come un problema legato alle quantità di competenze acquisite e, quindi, come il risultato del rallentamento rispetto al loro normale ritmo di acquisizione.
Quasi tutti gli studi più recenti, in realtà, concordano nell'identificare la natura del disturbo cognitivo non più come un semplice ritardo nell'acquisire specifiche abilità, bensì come il risultato di interrelazioni anomale dei diversi aspetti che strutturano l'intelligenza.
Con i bambini con i quali ho lavorato, presentavano spesso un disturbo di tipo cognitivo; occorreva allora affrontare una progettazione didattica che tenesse conto, non tanto della distanza che esiste tra la sua età anagrafica e quella cognitiva, bensì al modo in cui l’alunno “funziona” in quel preciso contesto, quali strategie adotta di fronte ad una situazione problematica, come si rivolge ai compagni e agli insegnanti, che tipi di giochi propone, come reagisce di fronte ad una situazione nuova, ecc.
Quali sono i modi e le dinamiche, anche di natura emotiva, che si mettono in gioco quando al soggetto sono richieste prestazioni di natura intellettiva? L'esperienza che si ripete nell'insuccesso, nel fallire sistematicamente le diverse prove scolastiche a cui il bambino viene sottoposto, non può che determinare lentamente, un atteggiamento di rifiuto verso l'attività didattica   [38].
Per me era importante, allora, cercare di essere un educatore incoraggiante, che sapesse far forza su ciò che il bambino sapeva fare realmente, in modo da stimolarlo in maniera costruttiva e motivante.
Motivare un bambino significava, per me, aiutarlo a prendere coscienza di ciò che realmente sapeva fare e da lì progredire, gradualmente, in sintonia con i ritmi ed i tempi della classe.
L'approccio iniziale con il bambino disabile è fondamentale per quanto riguarda il suo successo scolastico futuro e la qualità della relazione con l'insegnante e la classe stessa.
Fin dall'inizio, il bambino disabile deve avere la percezione che l’insegnante o il pedagogista non è lì per lui ma per la classe intera e che il suo compito sia quello di favorire il più possibile la realizzazione di un clima scolastico sereno, equilibrato, dove tutti possano cooperare per il raggiungimento di obiettivi comuni.
In relazione a questo è stato fondamentale, allora, che i bambini svantaggiati avessero  un programma didattico da seguire che fosse, da una parte in sintonia con i loro ritmi di apprendimento, dall'altra, il più possibile vicino al tipo di lavoro svolto dagli altri bambini. L'allievo disabile, in poche parole, deve maturare la percezione che il suo programma da svolgere segue, anche se con contenuti modificati, quello della classe, così da sentirsi realmente parte del gruppo e non un elemento estraneo che non ha niente da condividere con gli altri bambini.
L'atteggiamento che dovevo  mantenere era quello maturato sulla consapevolezza che non avevo a che fare con un disabile ma principalmente con un bambino e, come tutti bambini, con i suoi interessi, le sue esperienze ed il suo bagaglio di conoscenze. Questo concetto è fondamentale per chiunque svolga attività educative, infatti, credo sia importante identificare sin dai primi incontri le abilità residue dell'alunno per poterle far emergere e nutrire, pur essendo consapevole dei limiti imposti dalla patologia.



























5 Il  progetto pedagogico: alcune riflessioni
E’ stato importante per me mantenere una visione dell’alunno o degli alunni con i quali  lavoravo, non centrata sulle condizioni di disabilità ma guardando invece a valorizzare sempre le specifiche differenze soggettive e le caratteristiche personali.
Occorreva in poche parole tenere sotto controllo l'inadeguato adattamento al contesto o lo specifico ambito di azione dell’alunno, in modo da impostare una  buona didattica fondata sul presupposto che, modificando l’ambiente circostante, fosse possibile aiutare l’allievo a superare le situazioni di difficoltà.
 Mi interessava realizzare un insegnamento che favorisse un'affidabile integrazione del soggetto nei diversi contesti, consentendo di far leva sulla conoscenza dei bisogni, delle differenze individuali, sulla creazione di un clima relazionale e culturale vivo e sull'attivazione delle risorse.
Attualmente si parla molto di didattica inclusiva, cercando di rendere l'insegnamento sempre meno “speciale” per ridurre le differenze e allo stesso tempo rendere normale all'interno della classe le differenze che connotano ciascun allievo.
L'ICF[39], la classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute, non considera l'individuo a partire dalle malattie o menomazioni, ma evidenzia piuttosto le situazioni di vita quotidiana (sociali, familiari, lavorative) che possono causare disabilità.
Nella scuola, così come nelle diverse realtà sociali, il problema della disabilità è sempre presente perché coinvolge aspetti politici, psicologici e strutturali insieme; da questa complessa interazione scaturiscono resistenze al cambiamento o atteggiamenti assistenzialistici non sempre costruttivi, che spingono ad isolare o ad introdurre in maniera acritica un soggetto con disabilità all’interno di un contesto senza nessuna prospettiva di reale integrazione, senza cioè un progetto concreto da attuare. Quello che ne deriva è una situazione delicata e complessa allo stesso tempo che coinvolge le condizioni ambientali, lo stato di salute del bambino ed i fattori personali, dove anche   l’ ambiente gioca un ruolo fondamentale, infatti, la presenza di barriere architettoniche e la mancanza di facilitatori, limita le possibilità di azione di un soggetto.
Uno degli obiettivi dei progetti pedagogici da me ideati  è  proprio quello di maturare la consapevolezza che lo scopo dell’insegnante è quello di attuare una didattica che consenta al bambino disabile, non tanto di ottenere un'esistenza che sia il più possibile vicino alla normalità, quanto piuttosto a garantire, attraverso l'integrazione sociale, di poter essere come tutti a partire dal poter essere con tutti. Molti sono i ricercatori concordi su quanto espresso finora;  Ianes[40] ad esempio parla di speciale normalità, nel senso che occorre fare riferimento non soltanto agli alunni disabili ma a tutti gli allievi; i bisogni educativi speciali sono infatti presenti anche in persone non certificate, nel senso che chiunque, in un dato momento della propria vita può presentare un abbassamento di autostima, una mancanza di motivazione, una difficoltà di apprendimento ed altro. Occorreva insomma maturare la consapevolezza della specialità e singolarità degli alunni che chiedono differenziazioni ed individualizzazioni nei programmi di studio e di apprendimento. Se i docenti, così come i pedagogisti non cominciano ad impostare il proprio lavoro a partire dalle differenze soggettive degli alunni, nel pieno rispetto delle specifiche modalità di apprendimento, nella diversa capacità di elaborazione delle informazioni e nell’ accettazione delle pluralità delle intelligenze intese come diversità di stili di pensiero, difficilmente avremo una scuola che sappia rispondere in modo costruttivo alle esigenze di crescita degli utenti.
La scuola è l’agenzia che consente di crescere insieme partendo dal condividere le esperienze nel rispetto delle diversità soggettive; tutto questo però rischia di rimanere una formula discorsiva vuota se non si accetta il fatto che l'obiettivo primario da raggiungere è quello di una reale integrazione. Il compito reale delle attività educativa da me proposte, stavano sempre nel riuscire di rendere tutti partecipi, nel senso di non confondere il fare presenza in un’aula con il coinvolgimento attivo degli alunni; il problema principale è sempre stato quello di far acquisire alle scuole le caratteristiche di un ambiente realmente inclusivo nei confronti di tutte le diversità, in modo da farlo diventare il vero volano per consentire a chiunque di partecipare in modo attivo in tutti i contesti sociali[41].
Naturalmente per raggiungere traguardi così importanti e ideare un progetto pedagogico ad hoc, occorre che sapessi adottare didattiche precise, oltre a definire obiettivi specifici relativi alle principali abilità di base che possiamo così sintetizzare:

Abilità motorie[42]

Schema corporeo
-   riconoscere e denominare segmenti corporei
-   riconoscere la destra e la sinistra
-   assumere posizioni su imitazione
-   assumere posizioni seguendo indicazioni verbali
-   verbalizzare posizioni
-   rappresentare correttamente la figura umana
-   aver acquisito la dominanza laterale

Coordinazione dinamica generale
-   possedere un adeguato equilibrio statico e dinamico
-   variare correttamente i propri movimenti in relazione alle caratteristiche dell’ambiente
-   eseguire i movimenti in sequenza
-   eseguire percorsi motori

Abilità percettive

Percezione visiva
-   riconoscere e denominare colori, forme e dimensioni
-   abbinare immagini uguali
-   individuare somiglianze e differenze
-   riconoscere forme diversamente orientate nello spazio

Percezione uditiva
-   riconoscere suoni e rumori
-   discriminare suoni e rumori simili

Abilità percettivo-motorie[43]

Coordinazione oculo-manuale
-   eseguire percorsi grafici
-   ripassare linee curve e spezzate
-   rispettare, con il gesto grafico, le direzioni alto-basso, sinistra-destra
-   riprodurre correttamente figure geometriche e segni alfabetici

Integrazione spazio-temporale
-   riprodurre ritmi
-   leggere e rappresentare ritmi
-   riordinare in sequenza

Orientamento spaziale e temporale
-   individuare e denominare relazioni spaziali nell’ambiente e nelle immagini
-   eseguire consegne con indicazioni di tipo spaziale
-   disegnare rispettando le relazioni spaziali fra gli elementi
-   riprodurre segni rispettando le relazioni temporali
-   riprodurre una serie di elementi mantenendo la sequenza spaziale data
-   individuare relazioni temporali nelle esperienze temporali
-   orientarsi nel tempo usando simboli convenzionali
-   ordinare immagini in sequenze logico-temporale

Abilità linguistiche[44]

Comprensione
-   comprendere messaggi verbali sempre più complessi
-   comprendere storie narrate dall’adulto
-   comprendere narrazioni di semplici esperienze

Funzionalità e produzione
-   pronunciare correttamente i vari fonemi
-   pronunciare correttamente parole
-   formulare correttamente frasi
-   riferire esperienze personali e collettive
-   possedere un patrimonio lessicale adeguato
-   usare correttamente e comprendere semplici nessi logico-linguistici
-   usare il linguaggio verbale per stabilire relazioni logiche fra oggetti e avvenimenti

Abilità cognitive di base[45]

Attenzione e autonomia operativa
-   portare a termine brevi consegne
-   mantenere l’attenzione durante esperienze collettive
-   portare a termine un’attività
-   ascoltare con attenzione brevi spiegazioni
-   ascoltare con attenzione la narrazione o la lettura di una storia


Memoria uditivo-verbale

-   memorizzare stimoli visivi
-   memorizzare stimoli uditivi
-   memorizzare e riferire esperienze
-   memorizzare e rievocare storie

Logica e simbolizzazione

-   classificare in base a uno o più attributi
-   definire insiemi
-   completare insiemi
-   stabilire relazioni fra insiemi
-   seriare oggetti, immagini e simboli
-   rappresentare simbolicamente un’esperienza
-   riconoscere simboli visivi e uditivi convenzionali

Attività scolastiche
-   Lettura: riconoscimento dei singoli grafemi, analisi e sintesi di sillabe, parole e frasi, comprensione della lettura
-   Scrittura: padronanza del gesto grafico, acquisire consapevolezza ortografica, comprendere,  discriminare, associare grafemi e fonemi.
-   Calcolo: lettura e scrittura dei simboli numerici, esecuzione delle operazioni di calcolo, comprensione e risoluzione di situazioni problematiche[46]
-   Saperi disciplinari: comprensione della materia, capacità di analisi e di sintesi del testo, abilità nell’effettuare collegamenti fra discipline diverse, schematizzare e saper ripetere con parole proprie un brano studiato.

Lo scopo del lavoro progettuale, unitamente alla fase di osservazione e di valutazione delle abilità di base, doveva servire a me e ai docenti per agire sulle prestazioni compromesse di uno o più allievi con attività specifiche, mirate al recupero delle abilità residue e al potenziamento di quelle già possedute.
Lavorare con i bambini disabili, comunque, significava anche rendersi conto di non essere né io né gli altri docenti i loro tutori  né una loro protesi esclusiva; il nostro compito non era quello di “sostenere” l'allievo ma quello di fornire un valido aiuto a tutta la classe, cercando di creare, mantenere o ripristinare all'interno del gruppo-classe gli equilibri, eliminando allo stesso tempo tutti gli elementi destabilizzanti, che possono creare ostacoli o blocchi di natura emotiva e cognitiva.
Io e i docenti dovevamo quindi lavorare sul sistema, sulla relazione educativa, fungendo da ponte tra il bambino problematico e la classe, cercando di creare dei compromessi fra le parti.
Il mio intervento però non era di presa in carico del bambino in maniera esclusiva; io  ero una figura che operava all'interno di un gruppo multidisciplinare,  l'elemento di raccordo tra i vari saperi  e le competenze di natura medica, pedagogica, psicologica e didattica[47].
Era chiaro che noi adulti eravamo chiamati ad interpretare i bisogni formativi  di chi deve maturarsi culturalmente e socialmente; gli interventi educativi promossi sono diversi e vengono considerati un'attività di recupero e di riabilitazione di alterazioni e disturbi dell'apprendimento.
La specificità della nostra professione è la didattica; occorre essere in grado, attraverso la lettura della diagnosi redatta dal medico specialista o dallo psicologo clinico ed i colloqui con le diverse figure sanitarie (logopedisti, psicomotricisti della riabilitazione, educatori sanitari), di redigere un piano educativo e didattico ben definito che sappia far fronte ai bisogni formativi del bambino disabile.[48]
L'inserimento del bambino problematico non doveva ridursi ad un semplice inserimento nelle classi della scuola comune; occorreva infatti che alla certificazione medica si accompagnasse una diagnosi funzionale in senso educativo-scolastico, nella quale si ponessero in evidenza le principali aree di efficienza e di inefficienza presenti nella fase di sviluppo osservata, al fine di progettare gli interventi educativi e didattici più idonei a corrispondere ai bisogni e alle potenzialità individuali.
A meno che il bambino non si presenti a scuola già con una certificazione, la prima fase consisteva di solito nell' individuazione del problema, da parte del Consiglio di classe che lo segnala al Capo di Istituto, il quale, a sua volta, lo segnala al medico della ASL.
Il primo documento che veniva rilasciato dalle strutture sanitarie pubbliche era la certificazione che definisce clinicamente la tipologia della disabilità; al suo interno trovavamo la diagnosi funzionale, caratterizzata da una serie di livelli di capacità del bambino disabile, permettendo di giungere ad una conoscenza più approfondita delle potenzialità residue. Potevamo così programmare un intervento didattico adeguandolo alle possibilità dell'allievo.
Il terzo documento era il profilo dinamico funzionale(PDF). Si tratta di un documento che riprende la conoscenza dell'alunno dal punto di vista sanitario-riabilitativo e lo trasferisce sul piano didattico. Nella stesura del PDF veniva coinvolta, oltre alle componenti scolastiche, anche la famiglia.
Il quarto documento era il piano educativo individualizzato (PEI). Si tratta di uno strumento che l'insegnante utilizza nella programmazione del lavoro quotidiano ed in cui si ipotizzano gli obiettivi, gli interventi, le verifiche e le valutazioni in relazione ai bisogni dell'alunno. Il PEI rendeva operativi i dati del profilo dinamico funzionale, utilizzando, per quanto possibile, quelli forniti dalla diagnosi funzionale[49].
Nello specifico, è importante sottolineare che:
la diagnosi funzionale  è un documento che consta di una anamnesi fisiologica e patologica prossima e remota del soggetto, dove sono indicate le varie fasi dello sviluppo neuro-psicologico da zero a sedici anni; la diagnosi clinica redatta dal medico specialista nella patologia segnalata, infine, sono indicate le aree entro le quali registrare le diverse competenze, tra cui quella cognitiva, quella affettivo-relazionale, linguistica, sensoriale, motorio-prassica, neuropsicologica e della autonomia. Il profilo dinamico funzionale, redatto dai docenti curricolari, dagli insegnanti specializzati della scuola, in collaborazione con i familiari dell'alunno, comprende diversi assi, fra cui la descrizione funzionale dell'alunno in relazione alle difficoltà che egli dimostra di incontrare in settori diversi  e l'analisi dello sviluppo potenziale dell'alunno a breve e a medio termine, desunto dall'esame dei parametri che abbiamo elencato precedentemente.
Il Piano educativo individualizzato ha una durata annuale e  va steso entro il secondo mese dell'anno scolastico, dopo il relativo periodo di osservazione. La stesura del PEI spetta al gruppo di lavoro della scuola, agli operatori sociali, al personale curricolare e di sostegno della scuola. Sono inoltre chiamati ad intervenire i genitori ed eventualmente il Pedagogista. Il documento redatto è soggetto a periodiche revisioni da parte dello stesso gruppo operativo. Il PEI è in sintesi un documento in cui sono descritti gli interventi integrati ed equilibrati tra di loro, predisposti per l'alunno disabile, in un determinato periodo di tempo. E' dunque un progetto globale di integrazione nel quale vanno a confluire progetti di carattere didattico, riabilitativo e sociale. Occorre sottolineare che se compete alla scuola la parte educativa e didattica  del progetto connessa più specificamente con l'aspetto dell'apprendimento, non può essere ignorata la necessità di una stretta correlazione con i progetti riabilitativi e sociali. Occorre infine ricordare che non esiste un modello standard per redigere il PEI anche se pubblicazioni specialistiche hanno messo in circolazione alcuni moduli che si differenziano pochissimo tra loro[50]. In via del tutto indicativa, possiamo dire che, generalmente, le voci maggiormente ricorrenti nel documento del PEI sono: dati conoscitivi sull'alunno (diagnosi, tipologia della disabilità e competenze disciplinari, comportamenti, autonomia ed abilità relazionali); dati conoscitivi sulla famiglia (composizione, situazione ambientale, rapporto fra i componenti, atteggiamenti educativi, ecc.); dati conoscitivi sull'organizzazione scolastica (tempo scuola, presenza o assenza di sussidi didattici, percorso di apprendimento scolastico effettuabile, strategie di intervento, forme di collaborazione fra insegnante specializzato ed altre figure impegnate nell'integrazione, modalità e periodicità di verifica e di valutazione, modalità di coinvolgimento della famiglia); interventi esterni (interventi riabilitativi, psicologici, fisioterapici).[51]   
 Il mio lavoro all’interno della scuola consisteva allora, prevalentemente, nella stesura di un progetto centrato sul soggetto, che consentisse di adottare approcci psicopedagogici idonei all’individuo in questione e alle competenze (abilità) che si intendevano incrementare o sviluppare. Come più volte specificato, quando si lavora con bambini certificati occorre tenere presente la patologia, individuando anche, in relazione ad essa, un intervento psicopedagogico ben strutturato[52].
Naturalmente, non sempre mi trovavo a lavorare con bambini certificati ma semplicemente, anzi, in più occasioni operavo in contesti particolari dove erano presenti soggetti che manifestavano disagi o difficoltà di apprendimento, quindi, sarebbe stato assurdo pensare che fosse sufficiente avere a disposizione un ricettario di interventi che obbedisca alla logica: “se il bambino ha questo disturbo o si comporta così allora si risponde in questo modo e si adotta questo strumento”. Se così fosse, saremmo costretti ad ammettere che il pedagogista svolge una mera funzione tecnica e che la pedagogia stessa sia una semplice disciplina applicativa, uno metodo per istruire e basta, situazione che, come abbiamo cercato di spiegare precedentemente, non sta affatto in questi termini[53].  La pedagogia è infatti una scienza libera che studia la formazione e l’educazione dell’uomo, rimanendo sempre del tutto estranea a nozioni di ammaestramento o di condizionamento, caratteristici delle pratiche trasmissive e coercitive[54].
Gli strumenti esistenti sul mercato da utilizzare mi hanno consentito di intervenire in maniera efficace nel recupero delle potenzialità e delle abilità sommerse, per favorire il processo di integrazione o per diminuire le condizioni di svantaggio. Questi materiali erano diversi e spaziavano dagli strumenti didattici veri e propri (matematica, lettura e scrittura, materiali per la dislessia, discalculia, schede per facilitare l’apprendimento delle singole discipline come storia, geografia, scienze e lingue straniere ), alle abilità cognitive (memoria, motivazione, abilità di studio, ecc.), dai laboratori e conduzione di gruppi (teatro, arte, musica, autoconoscenza, esercizio dei cinque sensi), alle metodologie educative vere e proprie (orientamento e piano educativo individualizzato).
Ho potuto inoltre utilizzare testi per le tecnologie e la media education,[55]  per l’educazione emotiva e socioaffettiva (relazioni, sessualità, autostima, emozioni), strumenti specifici per ADHD/DDAI e per il linguaggio, comprese le difficoltà di letto-scrittura. Esistono, ancora, strumenti adottabili dai docenti riguardanti l’autismo e le disabilità (motricità, integrazione sociale, autonomia e ausili, ecc.) e quelli pertinenti alle relazioni di cura[56]
Molti dei materiali qui citati sono costituiti da parti fotocopiabili per agevolare il nostro lavoro sia individualmente che in gruppo, soprattutto per quanto riguarda il recupero delle difficoltà scolastiche, come disgrafie, disortografie e discalculie. E’ importante comunque ribadire, un’ultima volta, che le competenze dell’operatore non si basano su un uso acritico dei materiali, non si fonda cioè, sull’uso indiscriminato dei test di valutazione ma sulla capacità di individuare ciò che è più utile adottare, momento per momento, in quella situazione con quel soggetto specifico, avendo sempre ben chiaro cosa si intenda misurare, quale comportamento si voglia stimolare e come si intenda valutare la prestazione manifestata[57].   

6. Un esempio di intervento del Pedagogista a scuola
Il corso di specializzazione biennale in “il contributo della psicologia dello sviluppo al successo dell’apprendimento scolastico”, mi ha consentito di riflettere, come insegnante di scuola primaria e come Pedagogista libero professionista, sulle diverse situazioni di disagio e di difficoltà di apprendimento in cui mi imbatto ogni giorno a scuola con i bambini e nel mio studio. Rielaborare alcune esperienze pedagogiche maturate in questi anni attraverso le linee guida apprese dal corso di specializzazione, può essere utile per riflettere ed approfondire concettualmente i passaggi salienti dei progetti didattici e formativi che sono stati attuati  a scuola. 
Interessante è la situazione di Giulio[58] , un bambino di sette anni, che frequenta la seconda ed è inserito all'interno di una classe di undici bambini, di cui due certificati.
E' stato certificato dal neuropsichiatra della ASL  perché fin dalla nascita presenta, dagli esami clinici svolti, una riduzione del corpo calloso, la struttura che separa ed allo stesso tempo mette in connessione i due emisferi cerebrali.
Questo problema comporta un danno generalizzato nelle seguenti aree:
. cognitiva: insufficienza mentale media
. affettivo relazionale: basso livello di autostima, scarsa motivazione al rapporto con gli altri
. linguistica: livello di comprensione, produzione e di utilizzo dei linguaggi alternativi o integrati, basso
. sensoriale: bassa funzionalità visiva ed uditiva (ma non necessita di protesi)
. motorio-prassica: motricità globale impacciata, scarsa motricità fine, prassie semplici e complesse estremamente compromesse
. neuropsicologico: capacità mnestiche, attentive e di organizzazione spazio-temporali molto ridotte
. autonomia: personale e sociale piuttosto bassa
. asse dell'apprendimento: gioco e grafismo, lettura e scrittura, uso spontaneo delle competenze acquisite, tutte leggermente carenti.[59]
Giulio fin dalla prima classe, ha la necessità di essere seguito da un insegnante specializzato che rimane in classe insieme a lui per tre ore al giorno. Nelle ore rimanenti non è prevista la presenza di nessuna altra figura (educatori, operatori sociali, ecc.).
Giulio frequenta la Scuola Primaria a Fucecchio; la sua permanenza all'interno della struttura si prolunga anche durante le ore del pomeriggio, dal momento che, come tutti i bambini della scuola, fa il tempo pieno.
I genitori del bambino sono molto collaborativi ed accettano di aderire al progetto da noi proposto, per aiutare il bambino a superare alcune difficoltà di carattere relazionale e motorie.
Il bambino nonostante le difficoltà legate alla sua patologia è estremamente tranquillo, sereno e riesce a legare con tutti i componenti della classe, anche se in maniera molto superficiale. Le sue difficoltà sensoriali, prassiche ed intellettive non gli consentono, infatti, di vivere a pieno ed in maniera gratificante le relazioni con gli altri bambini, essendo limitate le funzioni motorie e del linguaggio.

Il lavoro dell’Insegnante/pedagogista nel progetto da me ideato
Il mio progetto all'interno della classe si è svolto a fianco dell'insegnante curricolare; parlando con lei è emerso che ha effettuato il corso di specializzazione polivalente, agevolando di molto, quindi, il lavoro da svolgere con Giulio, sia nella fase di progettazione che di attuazione.
Il bambino non segue un percorso didattico individualizzato, essendo capace di seguire le lezioni della classe nella quale è inserito, sia nelle attività logico-matematiche che in quelle di lettura e scrittura. I sussidi didattici utilizzati sono prevalentemente giochi che possono aiutare a perfezionare l'attività prassica, data la grande difficoltà del bambino a compiere i movimenti fini-motori e a memorizzare le diverse sequenze operative. Sono stati utilizzati giochi con materiali ad incastro, le costruzioni con i cubi, infilare lacci in una serie di fori, copiare figure geometriche, comporre figure con piccoli puzzle, disegnare.
Anche per quanto riguarda la scrittura, spesso sono stati utilizzati materiali ad incastro, dove occorreva inserire le giuste lettere della parola all'interno di un riquadro con la relativa immagine stampata.
Ogni attività di questo tipo che veniva proposta, offriva la possibilità di osservare l'attività prassica ed ideativa da tre diversi punti di vista e cioè:

a) l'imitazione:  il bambino eseguiva l'attività di incastro partendo da quella più semplice con la possibilità di imitare ogni singolo movimento del docente, attraverso l'uso delle diverse tessere.

b) la copia: dopo aver appreso i movimenti necessari alla costruzione del modello, il bambino doveva dimostrare di saper ricostruire l'oggetto, avendo davanti a sé il prodotto finito.

c) la riproduzione: il bambino veniva messo nella condizione di tenere a mente le caratteristiche e ricostruire il modello a memoria. In pratica prima l'insegnante costruisce il modello e poi l'abbatte, proprio davanti all'allievo, sia per mostrare come è stato costruito, sia per sollecitarne la ricostruzione.

Le difficoltà emergevano soprattutto nel momento in cui occorreva trasferire le competenze acquisite da un settore ad un altro; ad esempio, quando al bambino veniva chiesto di riprodurre graficamente le lettere, anziché comporle con le tessere ad incastro. 
La scrittura infatti, risulta essere un'attività molto difficoltosa, sia per l'impaccio motorio, sia per l'impossibilità del bambino di poter mantenere l'immagine mentale della lettera ed in seguito di riprodurla. Non solo. Per il bambino spesso non era possibile neppure abbinare il suono della lettera alla sua produzione grafica, tolto che per alcune vocali.
Le attività logico-matematiche sono risultate anche esse di difficile attuazione; al bambino mancava completamente il concetto di numero e non riusciva per questo ad associare il simbolo grafico alla relativa quantità.
L'unico modo per lavorare sulle quantità è stato con l'utilizzo di un sussidio didattico specifico, costituito da una valigetta con all'interno molti orsetti colorati in modo vario e di diversa grandezza. Grazie a questo gioco, tra l'altro molto interessante per il bambino, è stato possibile lavorare su:

. i raggruppamenti per colore e forma
. la seriazione per dimensione ed altezza (dal più alto al più basso, dal più scuro al più chiaro, ecc.)
. le quantità per prendere coscienza che le quantità di un insieme non dipendono dalla dimensione dei singoli elementi ma dal loro numero complessivo.

Abbiamo lavorato partendo da un'esperienza concreta della quantità per poi arrivare al numero, passando attraverso i concetti di appartenenza, disuguaglianza, classificazione, consapevoli del fatto che il numero, dal quale spesso si usa partire, è un'astrazione che all'inizio confonde le idee anziché chiarirle. Il punto di partenza, visto il fallimento delle precedenti didattiche, è stato il concetto di quantità, che fosse visibile, manipolabile e misurabile, anche attraverso l'uso del linguaggio. La quantità, in poche parole, precede il numero, dato che il numero non è una quantità ma è un segno che corrisponde ad una quantità.
Anche attraverso l'uso dei regoli colorati, il bambino ha avuto modo di acquisire nuove competenze procedendo in modo costruttivo e significativo, grazie ad una adeguata base manipolatoria e rappresentativa. Pensare e rappresentarsi mentalmente la quantità significa costruirsi i modelli base per una successiva classificazione gerarchica del concetto di numero. I materiali come i regoli e gli orsetti, sono serviti al bambino per costruirsi, anche se in maniera approssimata, adeguati modelli dei concetti matematici implicati nelle varie procedure operative. Il bambino non è comunque riuscito in maniera completa, almeno durante il mio periodo di tirocinio, a distaccarsi dalla manipolazione dei materiali per arrivare ad utilizzare soltanto le relative rappresentazioni mentali nell'esecuzione e nella interpretazione dei compiti a lui assegnati. 
Per quanto riguarda il linguaggio, invece, il programma didattico si è svolto utilizzando specifici materiali come figure, letture, espressioni linguistiche, ecc., cercando di dare al bambino una certa consapevolezza delle qualità convenzionali e sociali del mezzo verbale.
Anagrammi, giochi da tavolo come lo scarabeo ed i giochi verbali di gruppo, sono serviti per rinforzare la motivazione ed i contenuti della comunicazione stessa. Il primo passo da fare riguardava il rinforzo della fiducia che si costruisce nel rapporto con l'ambiente.  La fiducia nella realtà è il fondamento di ogni rapporto oggettuale ed interpersonale; la sua carenza rende insicuri e porta alla chiusura sociale. Sia per le insegnanti che per i genitori è stato difficile cercare di promuovere e stimolare il bambino all'autonomia, date le sue compromissioni non solo intellettive, ma soprattutto motorie e sensoriali, che non lo mettevano in grado di relazionarsi in maniera sicura con l'ambiente circostante. Da qui è nata l'idea di un progetto educativo che avesse come base l'Educazione Psicomotoria, ossia quella pratica che parte dal presupposto che l'atto motorio sia regolato dallo psichismo, nel momento in cui esce dalla sfera degli istinti e diventa azione volontaria ed intenzionale. Lo stretto legame tra la psiche e l'atto motorio fa sì che l'educazione psicomotoria divenga una tecnica per facilitare la partecipazione motoria ed emotiva del bambino, al fine di creare un atto motorio nuovo. E' in sintesi un'attività pedagogica e psicologica che utilizza le tecniche dell'educazione fisica al fine di migliorare il comportamento del soggetto. In pratica non è il movimento in sé ad avere valore, ma tutta l'attività motoria, purché sia volontaria, intenzionale e controllata. Al centro di questa pratica c'è la motivazione del soggetto e non il risultato ottenuto dall'esercizio fisico svolto; da qui nasce la profonda differenza e la polemica con gli esercizi tradizionali dell'educazione fisica classica[60].

Il progetto di Pedagogia Motoria
L’attività formativa da me proposta, prevede la possibilità di realizzare un progetto che ha come protagonista l’attività motoria, concepita in maniera diversa da quella classica, dando maggior rilievo ad aspetti più fantasiosi e di gioco, così da coinvolgere realmente il bambino disabile.
Il progetto prevede una sintesi fra l’educazione psicomotoria classica ed il Metodo di Moshe Feldenkrais[61], lavorando sia sull’immagine di sé, sull’equilibrio, la postura, la coordinazione globale e la respirazione, sia sull’imitazione dei movimenti degli animali e le loro caratteristiche comportamentali.
Il lavoro del progetto consisteva nel modificare alcune parti dell’educazione motoria classica, togliendo quelle troppo meccaniche e complesse, sostituendole con alcuni esercizi posturali, molto più rilassanti e semplici.
 
La nascita del Progetto
L’idea del progetto nasce dalle difficoltà motorie del bambino che lo limitano sotto molti punti di vista; in pratica abbiamo pensato che, realizzando attività di gioco e di psicomotricità fosse possibile risvegliare l’interesse per l’attività fisica, aiutandolo a coinvolgersi maggiormente con il gruppo della classe.
La difficoltà motoria, infatti, è accentuata dalla mancanza di volontà e di entusiasmo da parte del bambino per qualunque forma di attività fisica. Le disabilità sensoriali, l’equilibrio precario e la difficoltà di coordinare i movimenti hanno indotto il bambino a ritirarsi da molte attività di gioco con i compagni e ad aver scarsa fiducia nelle proprie capacità. Il bambino ha paura a muoversi, a scendere le scale e a correre. Ecco perché abbiamo preferito dare priorità ad un’attività psico-corporea anziché a progetti di altra natura. 

Quando

L’attività è svolta settimanalmente per un’ora e mezza ad incontro, facendola coincidere con l’attività prevista dal progetto di educazione psicomotoria. In questo modo il bambino può lavorare all’interno della propria classe e si creano le premesse affinché l’alunno possa misurarsi con gli altri e confrontarsi con le proprie capacità.


I modelli di riferimento

Nei testi di educazione psicomotoria, soprattutto quelli di Vayer[62], Lapierre e Picq[63], è possibile reperire numerosi suggerimenti di giochi e di attività idonee a svolgere una didattica psicomotoria. La scelta delle attività dipende dai prerequisiti dei bambini, ossia dalle caratteristiche tipologiche del danno, dalla gravità dello stesso e dalle capacità residue che possono venir impiegate negli esercizi; infine, dalla capacità dell'insegnante e dell'ambiente a creare l'atmosfera motivante. Nella pratica psicomotoria si aiuta il bambino ad abbinare andature a ritmi diversi, ad interrompere un movimento per iniziarne un altro, seguendo indicazioni visive o segnali acustici: un lavoro sul corpo che mira a una migliore conoscenza di sé, prendendo coscienza sia dei movimenti che questo compie, sia di ogni singola parte che lo compone. Questo è in sintesi l'educazione psicomotoria: non una forma di terapia o di riabilitazione, quindi, eppure molto più di una ginnastica dolce. Si tratta di una tecnica che si rivolge all'uomo nella sua globalità, dallo scheletro ai muscoli, dal sistema nervoso alla psiche. Parte dal presupposto che gli esseri umani hanno un potenziale innato, che si esprime con la capacità di apprendimento, e si propone di fornire gli strumenti di auto-miglioramento per aumentare la qualità della vita. Vuole cioè rendere più armonico ed efficiente il modo in cui si compiono le attività, sia nel tempo libero sia in ambito professionale. È un metodo che permette di rendere ciascuno più consapevole delle proprie azioni e liberarlo dagli schemi abituali che causano stress e altre patologie.

Due sono gli approcci: la Consapevolezza attraverso il movimento (Cam) e l'Integrazione funzionale (If). Nel primo, che si svolge in gruppo, l’insegnante guida gli allievi a eseguire esercizi facili e confortevoli che insegnano a prestare attenzione a come ci si muove. Si lavora sui movimenti base dell'agire umano: il flettersi, l'estendersi, il ruotare, il camminare ecc. Gli allievi imparano a usare le parti del corpo in armonia, in modo che ognuna si metta in relazione con le altre a seconda della funzione motoria che si vuole eseguire. L'integrazione funzionale, invece, si svolge in sedute individuali e prevede che l'esperto interagisca con l'allievo attraverso una comunicazione non verbale. L'insegnante, toccandolo delicatamente, indica a quest'ultimo come muoversi secondo schemi motori più ampi, facendo sciogliere le tensioni e sperimentando nuove sensazioni. Anche se diversi, i due approcci hanno lo stesso scopo: prendere coscienza del proprio corpo nello spazio e intrecciare relazioni meno conflittuali con questo.


Gli incontri
Ogni incontro consiste nell'eseguire seduti, sdraiati o in piedi esercizi mai impegnativi, talvolta persino divertenti, riguardanti una funzione corporea precisa ("imparare" correttamente a camminare, a stare seduti, a passare da una posizione all'altra o a strisciare...) e nel prestare attenzione alle parti dello scheletro a questa collegate. L'educazione psicomotoria aiuta tutti coloro che desiderano conoscere meglio il proprio potenziale psico-corporeo. Offre benefici anche nel campo della rieducazione e aiuta le persone che soffrono di dolori vertebrali, muscolari e i cardiopatici (educando la respirazione).

I principi fondamentali della pratica psicomotoria sono[64]:
ldistribuire in modo efficiente il carico della gravità sullo scheletro, per dare al tessuto osseo la sollecitazione più funzionale
lmigliorare la propria postura
lacquisire un'armonia nel cammino
lmigliorare l'equilibrio per prevenire le cadute

Finalità del progetto

-         Valorizzare le abilità del bambino disabile aiutandolo ad avere maggior fiducia in se stesso.
-         Presa in carico dell'alunno disabile come parte integrante dell'istituzione scolastica.
-         Utilizzo delle competenze professionali come risorse.
-         Creare un raccordo sistemico tra docenti, operatori, famiglie e alunni.
-          Rafforzare il potenziale emotivo e cognitivo dell'alunno.

OBIETTIVI SPECIFICI
-         Sviluppare la consapevolezza del proprio corpo come unità globale
-         Eseguire spinte e trazioni in maniera rilassata
-         Sviluppare la capacità di ascoltare e riconoscere la propria respirazione
-         Sviluppare la capacità di concentrazione e di ascolto
-         Percepire i movimenti ritmici del corpo
-         Sviluppare la capacità di coordinazione e concentrazione
-         Esercitare la capacità di eseguire in modo coordinato una serie di istruzioni
-         Accettare e affrontare la resistenza fisica e mentale per rafforzare il proprio senso di identità

SPAZI
 L'educazione psicomotoria, come ogni attività, necessita di uno spazio che consenta di esercitarla in un modo che sia il più possibile proficuo ed ottimale. A questo scopo viene utilizzata una sala di oltre 50 metri quadrati, considerando necessario un certo isolamento da e verso l’esterno. L’attività è svolta nel laboratorio appositamente strutturato.

Aspetti metodologici

 La presenza dell’insegnante specializzato, una reale collaborazione dei docenti curricolari e non, il coinvolgimento delle famiglie e del personale ausiliario, ha creato opportunità diverse di lavoro e risposte concrete agli effettivi bisogni degli alunni.
Questo progetto ha promosso ed accolto, quindi, iniziative di cooperazione;gli alunni coinvolti in questa attività sono stati stimolati all'uso appropriato di alcuni canali di comunicazione alternativa e allo scambio finale delle esperienze vissute. E’ stato importante lavorare molto sugli scambi tra bambini, dove ciascuno con le proprie potenzialità e competenze, è servito da veicolo per colmare e per consolidare le esperienze del gruppo[65].
In particolare è stata posta attenzione a:
-         il metodo della ricerca e scoperta guidata;
-         attività proposte in forma ludica;
-         uso dei vari linguaggi;
-         compiti graduati per difficoltà;
-         variare il tipo di lavoro quando viene meno l'attenzione;
-         esercizi semplici e fantasiosi tipici dell'educazione psicomotoria;
-         flessibilità e dinamismo;
-         lavori di gruppo.

 

 La Tecnica

Il Pedagogista, così come l’insegnante di sostegno o il docente curricolare, è parte di una interazione che lo mette in discussione e lo porta a  modificare alcuni atteggiamenti.
L’ottica dell'educazione psicomotoria è, prima di tutto, un coinvolgimento del docente nell’azione educativa, più ancora a livello emotivo e motorio che verbale.
L’operatore deve essere sempre l’animatore “all’interno” e mai un semplice ripetitore - proponente in situazioni di “gioco - motorio” e di dinamiche in gruppo. Occorre allora prestare la massima attenzione alla comunicazione verbale, ampliandola, motivandola, rendendola sempre più precisa e complessa.L’intervento di Pedagogia motoria ha quindi operato sempre sulla globalità della persona a livello:

a)      riabilitativo – funzionale
b)      cognitivo
c)      relazionale – comunicativo
d)      ludico – espressivo

Gli esercizi proposti sono pensati per bambini ed alunni normodotati e diversamente abili. Passaggi evolutivi, previsti metodologicamente, assumono più spontaneità se il sussidio viene sfruttato creativamente.

Le aree di intervento come ipotesi di lavoro sono state  le seguenti[66]:
A)     Schema corporeo
B)      Lateralizzazione
C)     Coordinamento
D)     Orientamento spazio – temporale
E)      Equilibrio
F)      Tono
G)     Ritmo

Strumenti

Gli strumenti specifici usati per la realizzazione del progetto, riguardano prevalentemente l’uso di materiali semplici come cerchi, bastoni, travi e sfere di varia dimensione e peso.

Verifica e valutazione

  La verifica e la valutazione sono attuate secondo i seguenti parametri :
a)       Alunno                            
-         socializzazione
-         interazione comunicativa
-         apprendimento
- reali abilità motorie acquisite
- fiducia in se stesso e coinvolgimento

b)       Docenti
-         pianificazione del lavoro
-         confronto all'interno del gruppo docente[67]

Parametri di Valutazione adottati
.  non può, non ce la fa a correre, ha problemi motori
. si blocca per difficoltà emotive
. ha difficoltà a riprodurre ritmi diversi
. riconosce e riproduce ritmi diversi, ma non riesce a collegare e ad integrare, anche a ritmi  semplici, andature adeguate
. abbina andature diverse a ritmi musicali diversi solo dietro indicazioni precise da parte dell'insegnante
. inventa andature e ritmi, elaborando creativamente possibilità di abbinamenti
. sa riprodurre graficamente quanto fatto a livello motorio, riuscendo sia a dare nel disegno il senso del movimento, sia a segnare con un codice convenzionale il ritmo segnato.

Tempi per la valutazione

-         In itinere e alla fine del progetto;
-         Incontri settimanali dei gruppi docenti interessati

Sintesi Finale
Questo lavoro è stato utile soprattutto per prendere coscienza delle difficoltà che un Pedagogista incontra, attraverso il confronto diretto con gli insegnanti  ed il gruppo classe con cui lavorare, ciascuno nel proprio ruolo. Affrontando le problematiche di ognuno e confrontando  i diversi punti di vista, è stato possibile trarre conclusioni operative ed arrivare così a soluzioni da sperimentare sul campo.
Non solo. Grazie al corso di specializzazione è stato possibile analizzare le normative relative all’integrazione e chiarire in sede collegiale il ruolo del Pedagogista nella scuola, così da dissipare ambiguità ed incertezze o sovrapposizioni di ruolo. Dal punto di vista prettamente tecnico, invece, particolarmente utile è stato acquisire dimestichezza con strumenti per l'osservazione e la valutazione delle abilità, così da orientare meglio le energie e limitare interventi improvvisati e privi di qualunque fondamento scientifico.
Condividere con gli insegnanti le proprie esperienze formative è servito anche per migliorare e rimettere in discussioni le conoscenze acquisite e date per scontate e per imparare a guardare le situazioni da punti di vista diversi. In sintesi, grazie al percorso di tirocinio è stato possibile migliorare la capacità di individuare il fabbisogno di risorse per l'individualizzazione e l'abilità nel progettare interventi didattici personalizzati nell'ottica della speciale normalità, riconoscendo i bisogni primari del bambino così da trovare i punti di contatto tra l'attività della classe e quella del soggetto disabile.
La riflessione su questa esperienza  è servito come  banco di prova con cui confrontarsi, al fine di verificare le competenze ed abilità maturate durante il percorso formativo universitario, inoltre, è stato possibile affinare gli strumenti a disposizione e le capacità di osservazione, metodologiche, didattiche e relazionali[68].    
A questo proposito, il lavoro svolto con Giulio è stato proficuo sotto diversi aspetti, soprattutto per quanto riguarda l'attività didattica all'interno della classe. Il bambino ha gradito molto la presenza di una figura maschile, rendendosi più disponibile allo svolgimento delle diverse attività scolastiche. Giulio a questo proposito, ha manifestato un maggiore interesse verso le attività logico-matematiche e letterarie, compilando le schede, appositamente selezionate per lui, cercando di coinvolgere anche gli altri bambini.
Una nota interessante da prendere in considerazione riguardava il fatto che, soprattutto negli ultimi mesi, era Giulio stesso che ricercava l'attenzione degli altri bambini, per mostrare loro come fosse bravo nei giochi di incastro e di manipolazione. Anche la classe rispondeva positivamente alle richieste di Giulio, dimostrandosi disponibile a collaborare con lui e ad accettare le diverse proposte.
E' per merito della collaborazione degli insegnanti, dei materiali educativi nuovi e della volontà degli altri bambini di “stare con Giulio”, che l'alunno ha potuto sperimentare la gratificazione che si riceve nel fare e fare bene il proprio lavoro. Sono diminuiti gli atteggiamenti legati alla distrazione ed al disinteresse, semplicemente facendo leva sulla motivazione e sulla gratificazione. Grazie all'atteggiamento incoraggiante degli insegnanti, con il pretesto della mia presenza in classe, il bambino ha potuto vivere la novità in maniera costruttiva, innescando nuovi comportamenti ed un atteggiamento sicuramente più positivo verso la scuola.
I problemi maggiori sono rimasti quelli riguardanti la sfera motoria, dell'orientamento e della coordinazione dei movimenti in generale, che sono stati superati grazie alla motivazione e alla collaborazione di tutti coloro che hanno partecipato attivamente al progetto. Talvolta però, nonostante il forte impegno da parte dei docenti nel programmare  questo importante percorso per la classe, non c'è stato modo di attivare il progetto in maniera completa. Gli impegni dei bambini con il teatro, con le lezioni di musica, con i progetti di educazione ambientale, hanno tolto alcune volte il tempo necessario all'attuazione del percorso di psicomotricità, creando difficoltà e momenti di disorganizzazione che, tuttavia, non hanno impedito ai bambini di impegnarsi realmente e di esprimersi in maniera costruttiva durante le ore di laboratorio.


























Conclusioni
E’ stato soltanto un viaggio, un cammino importante, per certi versi autobiografico e per altri occasione di incontri, di nuovi apprendimenti e di esperienze professionali proficue. Questa tesina mi ha aiutato a coniugare l’idea che avevo e mi ero costruito sulla figura del pedagogista, maturata  attraverso le precedenti esperienze universitarie, con i nuovi saperi frutto dell’attività di ricerca svolta dal corso di specializzazione Unimarconi. Oltre ad alimentare le mie conoscenze, questo percorso universitario è servito ad ampliare il concetto relativo alla figura pedagogista che avevo maturato con il lavoro, consentendomi di innervarlo e di nutrirlo con nuovi apprendimenti, così da rivalutarne il volto operativo che altrimenti rischiava di svalutarsi e di sbiadirsi, annegando nelle solite routine lavorative quotidiane.    
E’ stato grazie al lavoro a contatto con i bambini e all’esperienza formativa, che mi ha visto impegnato accanto a soggetti svantaggiati culturalmente e in situazione di handicap, che ho potuto constatare con mano come spesso le persone non possiedano la forza sufficiente per credere in se stesse e tendano a  delegare tutto ai docenti, alla società o comunque agli adulti, finendo per credere di più in ciò che gli altri dicono che in quello che riescono a sperimentare da soli. Tutto questo è frutto da una parte delle difficoltà soggettive in cui molte persone riversano e alle quali il pedagogista clinico deve offrire il proprio aiuto e contributo, dall’altra dalla mancanza di capacità (anche nostra) di incrementare l’autonomia e la libera espressione dei soggetti, favorendo invece l’omologazione e la ripetizione continua dell’uguale, senza mai operare al fine di mettere a nudo le reali potenzialità dei bambini, le uniche in grado di attivare il processo creativo che nasce e si sviluppa dal talento, dalle doti soggettive e dalla volontà di affermazione. Il significato della pedagogia clinica forse risiede proprio nel fatto che, per riuscire a capire gli altri prima dobbiamo fare chiarezza in noi stessi e per raggiungere questa meta occorre conquistare l’autoconoscenza. La pedagogia come scienza della formazione, aiuta a riflettere sulla propria educazione in maniera profonda e sistematica, innescando un cammino autobiografico che culmina con la conoscenza di se stessi e dei propri limiti. La pedagogia diviene allora un mezzo di autoindagine, la via che consente di autoesplorarsi e comprendersi in maniera profonda. Non importa sapere se nell’intervento pedagogico ideato si stia  dando maggiormente peso al percorso di scrittura rispetto a quello di pittura o di calcolo; se sia maggiore l’interesse rivolto verso gli aspetti relazionali rispetto agli intervenenti tesi a ridurre una situazione di svantaggio; la tecnica adottata non è essenziale perché le uniche cose che realmente contano (e questo l’ho appreso nel percorso universitario) sono la sincerità nei confronti di se stessi e la volontà di migliorarsi.    
La pedagogia, a conclusione di questo lavoro, è paragonabile ad un viaggio che altro non è se non un percorso formativo, un itinerario spesso accidentato, irto di rischi e pericoli. Un cammino difficile che conduce alla consapevolezza di sé e, allo stesso tempo, ad una radicale trasformazione della propria identità, percorrendo sentieri avventurosi e suggestivi, alla continua ricerca delle proprie radici più profonde. Un percorso avventuroso che conduce alla conoscenza, alla costruzione di se stessi e della realtà circostante, superando prove e difficoltà che aiutano a crescere e maturare, grazie sempre e comunque alla relazione con l’altro, sia esso adulto o bambino, disabile o anziano.  
La pedagogia è quindi, per un certo verso, un viaggio intellettuale e di  immaginazione, dove non mancano riferimenti mitologici e figure che appartengono al mondo della letteratura, della fiaba e dell’arte, intesa sia come pittura e musica sia come danza, teatro, ecc. Questo viaggio, per certi aspetti mentale, è un’esperienza che conduce alla libertà ma per arrivare a sperimentarla, occorre camminare, affermare la propria identità e superare tutte le difficoltà del caso. Spesso il sentiero percorso si dirama, si aprono nuove possibilità, nuove strade e il cammino diviene un vagabondare e un errare, un pellegrinaggio che conduce verso terre inesplorate e sconosciute. Questo vagare, anche senza una meta certa, rappresenta  un’occasione irrinunciabile per il pedagogista che vuole arrivare a costruirsi una propria identità ed esperire quella pienezza dell’essere che è permessa soltanto attraverso un’attenta ricerca delle proprie leggi e della propria natura. 
La pedagogia è una scienza che stimola la capacità di gioire della vita, restituendo spazio alla mente e rinnovando i sensi; il mondo interiore viene appagato e risponde espandendosi con forza in tutte le situazioni della vita. La fantasia, la creatività e il gioco alimentano questo processo di auto - miglioramento  e di perfezionamento interiore. Lo scopo del viaggio è anche quello di incrementare l’energia creativa del praticante superando i limiti del proprio corpo, attraverso l’esercizio e l’impegno costante.
Il viaggio formativo intrapreso mi ha permesso di incrementare le  capacità riflessive ed operative, superando i condizionamenti e i limiti che mi ero imposto da solo, anche se inconsapevolmente. Il fine credo di averlo raggiunto, attivando un processo di realizzazione creativa, che mi ha permesso di trasformare e di evolvere me stesso in maniera completa, superando la soglia che separa la potenza dall’atto, attraverso una sintesi dinamica di autoconoscenza e autorealizzazione[69].
Lo studio delle Scienze dell’Educazione prima (annesso a pedagogia clinica), delle Scienze della Formazione Primaria dopo e, adesso, del corso di specializzazione biennale, mi ha consentito di intraprendere un percorso incerto e disorientante  che, se da una parte mi ha fatto saggiare l’ampiezza e la profondità del processo del formativo, dall’altra mi ha mostrato come una simile grandezza possa costituire il limite stesso del viaggio. Grandezza perché ho avuto modo di costruirmi, da solo, il mio percorso formativo; limite perché, trovandomi davanti a tanti universi che gravitano intorno alla formazione, il rischio del disorientamento l’ho avvertito ed è stato un po’  come se in realtà mi fossi trovato  innanzi al nulla, dove tutto poteva portare ovunque e in nessun posto. Dopo vari tentativi, salite e discese, soste e interruzioni, questo ultimo percorso formativo universitario mi ha consentito di saldare le conoscenze tecniche con quelle relative alla filosofia, alla pedagogia, alla psicologia e all’ antropologia, sperimentando nuove possibilità e ambiti di intervento diversi. Ho iniziato così a proiettare le mie conoscenze con i ragazzi in situazione di handicap, rimettendo costantemente in discussione il mio modo di intendere, costruire e concepire la realtà delle cose e della pedagogia stessa.
La formazione se vissuta introspettivamente rappresenta un cammino, privato, con una meta il più delle volte ideale, che costringe a vagabondare, a sperimentare e a fallire, a ricominciare e ad apprendere dai propri errori. Un percorso con una partenza incerta ed un arrivo mai definitivo…  
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[1]             Crispiani P., Pedagogia clinica. La pedagogia sul campo, tra scienza e professione, Junior , Bergamo,  2001,  p. 12
[2]    Cfr. Itard J. M., Il fanciullo selvaggio, 1801, 1807, Armando, Roma, 1970
[3]    Cfr. Séguin E., L’idiota, Armando, Roma, 1970
[4]    Cfr. Montessori M., La scoperta del bambino, 1909, Garzanti, Milano, 1949
[5]    Cfr. Decroly O., La funzione di globalizzazione e l’insegnamento, La Nuova Italia, Firenze, 1962
[6]    Cfr Claparède, Psychologie de l’enfant et pèdagogie expèrimentale, Paris, 1922
[7]    Massa R., La clinica della formazione, Franco Angeli, Milano, 1997
[8]      Massa R., op. cit.,pp. 582 e ss.
[9]          Cfr. Riva M. G., L’abuso educativo, Unicopli, Milano 1995
[10]  Cfr. Demetrio D., L’interiorità maschile, Rafaello Cortina, Milano, 2010
[11]            Cfr. Massa R. Cerioli R., La Clinica della Formazione come pratica di consulenza e supervisione, IRRSAE Lombardia, Angeli, Milano, 1999
[12]    Crispiani P. Itard e la pedagogia clinica,Tecnodid, Napoli, 1998
[13]  Cfr. Vygotskij L. S., Fondamenti di Difettologia, Bulzoni, Roma, 1986
[14]  Cfr. Crispiani P.  Pedagogia clinica. La pedagogia sul campo, tra scienza e professione, Junior , Bergamo,  2001
[15]  Cfr. Demetrio D., Filosofia dell’educazione ed età adulta, Utet, Torino, 2003
[16]  Per approfondimenti sulla gestione delle relazioni nei diversi contesti, Cfr. Catarsi C. (a cura di), La relazione d’aiuto nella scuola e nei servizi socioeducativi, Del Cerro, Tirrenia, Pisa, 2004.
[17]  Sulla relazione d’aiuto, Cfr. Canevaro A., Chieregatti A., La relazione di aiuto, Carocci, Roma, 2001.
[18]  Cfr. G. Viscito, Pedagogia Sociale, Unità 2., Unimarconi, pp. 14 e ss.
[19]  Cambi F., La cura di sé come processo formativo, Laterza, Roma, 2010, p. 7
[20]  Sull’educazione interiore, intesa come Pedagogia introspettiva con il suo linguaggio simbolico e le sue pratiche per coltivare l’idea stessa di interiorità, si è soffermato Demetrio. Per approfondimenti Cfr. Demetrio D., L’Educazione Interiore, La Nuova Italia, Firenze, 2000
[21]  Cambi F., La cura di sé come processo formativo, op. cit. pp. 5 e ss.
[22]  Cfr. Detti E., Il piacere di leggere, Firenze, La Nuova Italia, 1987
[23]  Mariani A, La lettura come formazione del sé, in Il Monitore, 1, 2002
[24]  Sabatano C., Formare al senso di sé, Pisa, ETS, 2005
[25]  Il termine “briccole è stato preso in prestito da Trisciuzzi, intendendo con questo termine i grossi pali che vengono piantati nelle lagune e che servono per segnalare la navigazione sicura dei naviganti; trasferendoci in ambito  pedagogico, questo termine assume un significato relativo ai punti di riferimento esistenziali e alle sicurezze che offrono durante il viaggio della vita. Cfr. Trisciuzzi L., Elogio dell’educazione, ETS, Pisa, 1998, p.11
[26]  Cambi F., L’autobiografia come metodo formativo, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. V e VI
[27]  Castelli E. (a cura di), La diaristica filosofica, Padova, Cedam, 1959
[28]  Demetrio D., Raccontarsi, Milano, Raffaello Cortina, 1995
[29]  Demetrio D., Filosofia del camminare, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006, pp. 223 e ss.
[30]  Demetrio D., Ascetismo metropolitano, Ponte alle Grazie, Milano, 2009, pp. 7 e ss.
[31]  Sul tema del teatro e dei detenuti si è soffermato Cambi in un saggio. Cfr. Cambi F., Le devianze giovanili e il trattamento educativo: la cura e la socializzazione. Appunti sulla formazione dei formatori, in Boffo V., La Cura in Pedagogia, op. cit., pp. 153 e ss. 
[32]  Colangelo S., Come si legge una poesia,  Carocci, Roma, 2003
[33]  Iori V., Nei sentieri dell’esistere, Erickson, Gardolo (TN), 2006 pp. 11 e ss.
[34]  CFR. Trisciuzzi L., Manuale di didattica per l'handicap, Laterza, Roma-Bari, 2000, pp. 251 e ss.
[35]  Zelioli A., L'insegnante di sostegno, in Iniziative pedagogico-didattiche per l'inserimento scolastico degli handicappati,Ministero della Pubblica Istruzione, <<Atti del Seminario Nazionale>>, 1981, Arezzo
[36]  Sugli aspetti autobiografici e relazionali CFR. Trisciuzzi L., Zappaterra T., Bichi L., Tenersi Per Mano, University Press, Firenze, 2006
[37]  C.F.R Matteoli S., L’intervento del pedagogista clinico nelle difficoltà di apprendimento, edizioni junior, 2010, San Paolo (Bg)
[38]  C.F.R. Trisciuzzi L., Galanti M.A., Pedagogia e didattica speciale per insegnanti di sostegno e operatori della formazione, ETS, Pisa, 2001, pp. 193 e ss.
[39]  O.M.S.,ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Salute e della Disabilità, Erickson, Trento, 2002 
[40]  CFR. Ianes, D., La speciale normalità, Erickson, Trento, 2006.
[41]  Bonaiuti G., Calvani A., Ranieri M., Fondamenti di didattica, Carocci, Roma, 2007, pp. 138 e ss.
[42]  Per approfondimenti circa gli aspetti psicomotori, CFR. Trisciuzzi L., Zappaterra T., La psicomotricità tra biologia e didattica, ETS, Pisa, 2004
[43]  Per approfondimenti circa gli aspetti percettivi e grafomotori, Cfr. Trisciuzzi L., Cappellari G.P., Fondamenti di Psicopedagogia, La Nuova Italia, Firenze, 1996; oppure Cfr. Pratelli M, Disgrafia, Erickson, Trento, 1995
[44]  Cfr. Bagnara S., L’attenzione, Il Mulino, Bologna, 1984
[45]  CFR. Brotini M, Le difficoltà di apprendimento, Del Cerro, Tirrenia (Pisa), 2000
[46]  Cfr. Orsolini M., Fanari R., Maronacato C., Difficoltà di lettura bambini, Ed. Carocci, Roma, 2005
[47]  Cfr. Di Florio A., Marradi A., Handicap e funzione civile della scuola, Del Cerro, Pisa, 1992
[48]  CFR. Trisciuzzi L., La pedagogia clinica, Laterza, Roma, 2003, pp. 18 e ss.
[49]  CFR. Crispiani P., Giaconi C., Diogene 2008, Junior, Azzano S. Paolo (BG), 2008
[50]  Ianes D., Cramerotti S. (a cura di), Il Piano Educativo Individualizzato. Progetto di vita, Erickson, Trento, 2007
[51]  Crispiani P., Giaconi C., Hermes 2008, Junior, Azzano S. Paolo (BG), 2007
[52]  Sugli aspetti relativi alle didattiche, pratiche di inclusione nelle disabilità e sugli orientamenti e strategie di intervento riguardanti le diverse sindromi, deficit e disturbi, CFR. Zappaterra T., Special needs a scuola, op. cit.
[53]  Sulla complessità della pedagogia e sulla non riducibilità di essa all’ istruzione e alla semplice trasmissione di saperi, Cfr. Cambi F. Manuale di filosofia dell’educazione, Laterza, Roma, 2000
[54]  Gennari M., Prolegomeni alla Pedagogia Generale, Bompiani, Milano, 2010, p. 63
[55]  CFR. Calvani C., I nuovi media nella scuola, Carocci, Roma, 2006; oppure CFR Devoti A. G., Educazione e Tecnologia, ETS, Pisa, 2003, oppure CFR.Trojani A., Hmultimedia, ETS, Pisa, 2007
[56]  CFR.  Erickson edizioni, Catalogo 2009/2010, Trento, 2009
[57]  Sugli aspetti più tecnici della valutazione, CFR. De Landsheere G., Introduzione alla ricerca in educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1996
[58]  Per motivi di privacy il nome del bambino è stato cambiato.
[59]  I seguenti dati sono stati ripresi  dalla diagnosi redatta dal medico e dall'equipe degli specialisti ed in seguito rielaborati.
[60]  Cfr.  Coste J.C., La psicomotricità, La Nuova Italia, Firenze, 1981
[61]  Cfr. Feldenkrais M., Conoscersi attraverso il movimento, Celuc Libri, Milano, 2004.
[62]  Vayer P., Educazione psicomotoria nell’età prescolastica, Armando, Roma, 1973
[63]  Picq L., Vayer P., Educazione Psicomotoria e Ritardo Mentale, Armando, Roma, 1977.
[64]  Alcuni aspetti organizzativi per la realizzazione della pratica psicomotoria sono stati ripresi da un importante testo. Cfr. Cavagnola R., Il centro socioeducativo, Erickson, Trento, 1994
[65]  CFR. Le Boulch J., Educare con il movimento, Armando, Roma, 2003
[66]  Bandinelli A.C., Innocenzi M., Magrini A., Prato G. (a cura di), L’insegnante di sostegno, Utet, Torino, 1993
[67]  Balboni B., Dispenza A., Educazione Fisica Scolastica, Il Capitello, Torino, 2002, pp. 34 e ss.
[68]  Sugli aspetti relativi all’integrazione e all’handicap, CFR.Canevaro A., Balzaretti C., Rigon R, Pedagogia Speciale dell’ Integrazione, La Nuova Italia, Firenze, 1999
[69]  Cfr. Sbisà A., Alice e Dioniso, Horus, Torino, 1994